Favorire il dialogo culturale in tutte le sue forme tra i paesi della sponda Nord  e quelli della sponda Sud del Mediterraneo.
 
 
 
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Le finalità della Fondazione

 
La Fondazione si propone di agevolare il formarsi di una cultura dello sviluppo nelle regioni più deboli del paese con particolare riferimento alla regione Sicilia. In questo senso occorre creare azioni sinergiche tra le regioni meridionali finalizzate a realizzare in Sicilia efficienti politiche della formazione, nonché a favorire tutte le forme di partecipazione orientate ad una migliore tutela dei diritti. In questo contesto è importante favorire il dialogo culturale in tutte le sue forme tra i paesi della sponda Nord  e quelli della sponda Sud del Mediterraneo, individuando nella Sicilia il territorio ideale per ubicare iniziative culturali che facciano di essa un vero e proprio hub della conoscenza.
 

Gli impegni
     
 

Nel perseguimento dello scopo istituzionale, la fondazione si impegna a:

a) svolgere ricerche e corsi di formazione che mirino a diffondere la cultura della partecipazione consapevole;
b) promuovere attività editoriali limitatamente allo scopo istituzionale;
c) divulgare le proprie iniziative attraverso i mass media e la rete internet;
d) organizzare in Sicilia convegni e incontri a livello nazionale ed internazionale per facilitare il dialogo tra i popoli del mediterraneo;
e) svolgere indagini finalizzate alla migliore conoscenza delle condizioni di vita dei popoli della regione mediterranea;
f) supportare attraverso la documentazione e la ricerca le attività delle istituzioni impegnate negli ambiti in oggetto;
g) diventare membro di altre organizzazioni e stipulare convenzioni con altre istituzioni

 
     
 
 
   
   


 
Questione salariale, senso della vita e speranza del futuro:
i grandi temi sommersi dalle notizie spazzatura
Occupazione giovanile e lavoro le vere priorità
Pietro Barcellona
 

Come tutti gli italiani, ho vissuto questa calda estate assistendo al festival dell'indecenza della stampa nazionale, che non solo ha preso ormai l'abitudine di raccontarci le vicende erotiche del premier, dei suoi amici e anche dei suoi nemici, ma che stupisce anche per la vacuità e la superficialità della maggior parte dei temi dibattuti, come i rapporti tra Berlusconi e il Vaticano, le battaglie laiciste di Marino, il colore del fumo degli aerei nel cielo di Tripoli, le file dei ritorni dalle vacanze e i ritardi degli aerei, le esternazioni della pattuglia leghista, sempre pronta a infilzare il nemico di turno.

Tra i pochissimi articoli che hanno richia­mato la mia attenzione, debbo richiamare quello di Joaquin Navarro-Valls, Salari e senso del lavoro, apparso su "La Repubblica" del 30 agosto, che così conclude: «In definitiva, quale che sia la funzione, il livello e la tipologia di prestazione d'opera, una vera riforma del lavoro non potrà restare valida nel tempo se non proporrà un avvicinamento della legge alle esigenze materiali e culturali delle persone, ossia ai loro bisogni di libertà, alla loro generosità e alle loro concrete occorrenze familiari».

Un articolo bello e concreto, che ci ricorda che il diritto al lavoro e alla retribuzione sono nella nostra Costituzione diritti della personalità, non regolati solo dai rapporti di forza contrattuali e che nel 1970 Luciano Lama aveva addirittura proclamato che il lavoro è una variabile indipendente del sistema economico. Cioè che la vita degli uomini, che vivono in un paese, deve comunque riservare alla retribuzione del lavoro una quota della ricchezza prodotta adeguata alle loro esigenze vitali.

È talmente lontana quest'epoca e talmente fuori posto l'articolo di Navarro-Valls che mi sono sentito risucchiato nel tempo pas­sato, quasi come un dinosauro sopravvissuto. Chi parla oggi del lavoro, dei disoccupati, degli oltre 350 morti per incidenti, della disperazione solitaria di chi trascorre la giornata aspettando il nulla? Cos'è il lavoro e come se ne può parlare? Voglio cercare di ricordare ai giovani le persone che ho visto lavorare e che sono rimaste come emblemi del lavoro nella mia memoria.

Comincio da un contadino di Bronte che lavorava in una proprietà di mio suocero, giù verso il Simeto, alla quale era stato dato il nome simbolico di "Barbaro". Mio suocero era uno sturziano di ferro, fondatore della Dc e membro del Cnl, io un giovane comunista, convinto che solo un'aspra lotta avrebbe potuto sconfig­gere lo strapotere dei padroni.

Eppure si riusciva ad andare d'accordo e tutti i sabati partivamo per andare a vedere cosa succedeva al "Barbaro". Ogni sabato don Vincenzo, il contadino che viveva e la­vorava lì, era orgoglioso di mostrare lo spazio di terra necessario a impiantare una pianticella di limone. Mi appassionava il racconto di come don Vincenzo fosse riuscito a far saltare croste di lava e a estirpare erbacce spinose. Cos'era il lavoro in quel fazzoletto di terra sotto Bronte? Era l'orgoglio di vincere una battaglia con la natura e di trasformarla in terra feconda.

Un altro contadino è rimasto nella mia memoria quando, durante le vacanze estive, lo vedevo manovrare con la vanga l'acqua che scorreva per le canalette fino alla terra coltivata dove germogliavano le piante dell'orto. La forza e la nettezza del gesto con cui rivoltava la terra per far passare l'acqua erano uno spettacolo di suoni e colori. Cos'era il lavoro? Era la bellezza di questo matrimonio di acqua e terra che dava vita a nuove piante. I prodotti dell'orto poi venivano venduti sul posto e don Puddu intascava le poche lire come un trionfale riconoscimento della qualità della sua roba.


Nella foto un dipinto di Giambecchina

Qualche anno dopo, già dirigente del PCI, ho incontrato gli operai dell’Impa di Rendo.

Metalmeccanici, esperti di componentistica. Andavo a parlare nell'ora della mensa, spesso erano con me alcuni giovani sindacalisti. Si discuteva del consiglio di fabbrica e dei rapporti con la dirigenza aziendale, che tendeva a spostare i rapporti sul terreno del paternalismo, si direbbe oggi del capitalismo compassionevole. Questi operai di­fendevano la loro fabbrica come un gioiello di modernità e si sentivano la parte avanzata del grande movimento operaio italiano. Il lavoro era espressione della loro abilità, del loro essere operai qualificati e le loro tute blu il simbolo di uno status riconosciuto e rispettato nel quartiere.

Adesso non c'è più niente, anche le im­prese più sofisticate stanno spostando le loro produzioni e i famosi patti territoriali sono serviti soltanto a qualche arricchimento personale.

Un'altra categoria che incontravo spesso erano i manovali dei cantieri di Finocchiaro: quando si faceva l'assemblea di fabbrica, questi contadini, trapiantati violentemente in città dai processi di urbanizzazione sel­vaggia, ritenevano di aver guadagnato un gradino nella scala sociale e di essere anch’essi come i metalmeccanici, il futuro operoso di una città in crescita. Di quel pe­riodo, quando gli edili a Catania erano ottantamila, è rimasto soltanto lo squallore dei quartieri periferici pieni di palazzi abusivi. La maggior parte delle imprese, che ancora lavorano nell'edilizia, si è fatta furba e dà i lavori in subappalto a padroncini che gestiscono piccoli gruppi senza più la tutela del contratto con l'impresa.

Nella segreteria provinciale, di cui facevo parte, avevo co­me compagno un contadino, Quaceci, che aveva fatto le lotte per la terra. Era un diamante di onestà e amministrava le poche risorse per garantire almeno gli stipendi ai funzionari. Fu il primo a mettermi in guardia contro gli sconvolgimenti che stavano accadendo nel mondo del lavoro. Le campagne si spopolavano, i prodotti della nostra terra andavano fuori mercato.

Tanti mondi diversi,  ma per tutti il lavoro non era soltanto una fonte di reddito familiare, ma anche la condizione della propria dignità sociale, il segno di un'appartenenza a un movimento che, come si diceva, veniva da lontano e andava lontano.

Adesso il tempo si è fermato. L'immobi­lità della rete globale ha spostato le produzioni nei luoghi in cui non esiste tutela del lavoro, dove si sfruttano i bambini e le donne, dove i salari bastano soltanto a sfamarsi. L'Italia sta cessando di essere un paese produttore e trasformatore di materie prime. È un paese di ultraricchi egoisti, di speculatori abusivi, in larga parte dominato da poteri mafiosi e destinato sempre più a creare lavoro nero e precariato di massa. Nessuno dei giovani riesce più a immaginare se stesso come protagonista di un percorso lavorativo che lo porti a una maggiore creatività e a uno sviluppo delle sue attitudini.

Una ragazza, che ho seguito per circa dieci anni, che ha ottenuto un master di qualità, che conosce l'inglese e che sa lavorare ai progetti informatici, adesso è occupata in un call center per qualche centinaio di euro al mese. Non ha la soddisfazione di avere un contratto di lavoro perché ufficialmente è un lavoratore autonomo a cui sono stati dati in affitto gli strumenti di lavoro. Centinaia di ragazzi che hanno studiato con profitto, oltre il livello della laurea, si dibattono nel precariato della scuola fra l'umiliazione e la rabbia.

Nel dopoguerra il paese ebbe un grande scatto di orgoglio e il piano del lavoro, pro­posto dalla Cgl di Di Vittorio diventò un simbolo della proiezione del paese verso il pieno impiego della manodopera esistente. Oggi solo il portavoce di un Papa, che scrive su "La Repubblica", ci ricorda che esiste una questione salariale nazionale e che il salario è una dimensione che si intreccia forte­mente con il problema del senso della vita e con la speranza per il futuro. Né le forze po­litiche, né il sindacato hanno purtroppo la forza e l'intelligenza di capire che, se il lavoro e l'occupazione giovanile non vengono rimessi nell'ordine delle priorità assolute, la crisi endemica distruggerà anche il senso morale e la serietà degli stili di vita. Il lavoro deve essere una variabile indipendente, non può essere considerato un'appendice occasionale del processo produttivo. La precarietà e la disoccupazione sono fattori di inquinamento mentale che creano nel paese sfiducia e disamore, indifferenza e cinismo. Il lavoro è la prima motivazione che può spingere i giovani ad impegnarsi e sentirsi parte di una comunità.

Solo un grande piano del lavoro, che riclassifichi tutti gli obiettivi meramente quantitativi delle statistiche economiche, indirizzando il paese verso la prospettiva di una nuova produttività qualitativa, può ridare dignità al dibattito politico, ai giornalisti, agli intellettuali e agli uomini di Chiesa che ancora hanno a cuore le sorti della nostra comunità nazionale.

 
(La Sicilia, giovedì 03/09/2009)

 
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