Favorire il dialogo culturale in tutte le sue forme tra i paesi della sponda Nord  e quelli della sponda Sud del Mediterraneo.
 
 
 
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Le finalità della Fondazione

 
La Fondazione si propone di agevolare il formarsi di una cultura dello sviluppo nelle regioni più deboli del paese con particolare riferimento alla regione Sicilia. In questo senso occorre creare azioni sinergiche tra le regioni meridionali finalizzate a realizzare in Sicilia efficienti politiche della formazione, nonché a favorire tutte le forme di partecipazione orientate ad una migliore tutela dei diritti. In questo contesto è importante favorire il dialogo culturale in tutte le sue forme tra i paesi della sponda Nord  e quelli della sponda Sud del Mediterraneo, individuando nella Sicilia il territorio ideale per ubicare iniziative culturali che facciano di essa un vero e proprio hub della conoscenza.
 

Gli impegni
     
 

Nel perseguimento dello scopo istituzionale, la fondazione si impegna a:

a) svolgere ricerche e corsi di formazione che mirino a diffondere la cultura della partecipazione consapevole;
b) promuovere attività editoriali limitatamente allo scopo istituzionale;
c) divulgare le proprie iniziative attraverso i mass media e la rete internet;
d) organizzare in Sicilia convegni e incontri a livello nazionale ed internazionale per facilitare il dialogo tra i popoli del mediterraneo;
e) svolgere indagini finalizzate alla migliore conoscenza delle condizioni di vita dei popoli della regione mediterranea;
f) supportare attraverso la documentazione e la ricerca le attività delle istituzioni impegnate negli ambiti in oggetto;
g) diventare membro di altre organizzazioni e stipulare convenzioni con altre istituzioni

 
     
 
 
   
   


 

L’analisi. Dopo proporzionale puro, Mattarellum, proporzionale con premi di maggioranza e Porcellum, i partiti alla ricerca di un quinto sistema

Il pasticcio politico
della riforma elettorale

Le vere basi dell’edificio della democrazia maggioritaria

 

Oreste Massari

 

La politica italiana è in queste settimane alle prese con il complicatissimo problema di trovare il suo quinto sistema elettorale dall’inizio della Repubblica. Finora abbiamo avuto quattro sistemi elettorali: il proporzionale quasi puro (1948-1992); il maggioritario misto (il cosiddetto Mattarellum, 1993-2005); il proporzionale con premi di maggioranza (18 tra Camera e Senato), soglie di sbarramento variabili, liste bloccate (il cosiddetto Porcellum, 2005-3 dicembre 2013); il nuovo sistema – con il quale dovremmo andare a votare se le Camere fossero sciolte prima dell’approvazione di una nuova legge - quale risulta dalla sentenza della Corte Costituzionale del 4 dicembre 2013 che ha dichiarato illegittimi sia i premi sia la lista bloccata, e consistente in un proporzionale con soglie di sbarramento e voto di preferenza (da aggiungere probabilmente con decreto in applicazione del dettato della Corte). Inutile dire che in ciò il sistema italiano non ha paragoni con nessun’altra democrazia occidentale al mondo, il che la dice già lunga sull’anomalia italiana.

Ma prima di scervellarsi per individuare e proporre l’ennesimo sistema elettorale, come fanno in troppi presunti esperti, occorre impostare – al di là delle tecnicalità – i termini culturali e storici della questione, giacché il sistema elettorale è solo uno strumento in vista di determinate finalità. Il punto è chiarire queste finalità.

Di norma, le finalità principali (oltre  ad altre secondarie) sono assicurare rappresentatività (tutte le principali correnti politiche, comprese le minoranze, si devono sentire rappresentate), governabilità(tramite la riduzione della frammentazione  partitica), responsabilità (per esempio nel rapporto tra eletti ed elettori). Tra queste finalità occorre trovare un equilibrio, spostando il baricentro ora da un lato (rappresentatività) ora dall’altro (governabilità), secondo le esigenze di un paese in una data fase storica. Va da sé che non esiste un sistema elettorale ottimale in assoluto. Dipende dalle circostanze e dai contesti. E va da sé che il sistema elettorale può risolvere alcuni problemi ma non tutti, giacché per avere una democrazia come la si vuole in Italia – con alternanza, con il bipolarismo, con l’investitura diretta da parte degli elettori della maggioranza, del governo, del capo del governo e del programma, ossia una democrazia maggioritaria – non basta il sistema elettorale, ma entra in gioco tanto la forma di governo quanto il sistema dei partiti (che è poi la variabile più importante e decisiva), oltre che la cultura e le convenzioni politiche.

Troppi ingredienti perché li possa sostituire tutti una legge elettorale. Ed è proprio questo l’errore che si è compiuto in Italia: caricare la responsabilità di tutto, nel bene e nel male, sul sistema elettorale. Così tutti i mali della cosiddetta Prima Repubblica, riassumibili nel carattere bloccato della democrazia italiana, con l’assenza di alternanza e con la conseguente degenerazione partitocratica, sono stati addossati al sistema proporzionale, come la stagione dei referendum elettorali, peraltro utili per cambiare il sistema, mostra. Ora è storicamente accertato che l’impossibilità dell’alternanza e del bipolarismo non dipendeva principalmente dalla legge elettorale proporzionale (che pure aveva molte colpe, come il voto di preferenza multiplo) ma dal peculiare sistema partitico italiano, ossia dal pluralismo estremo polarizzato. La presenza di partiti antisistema (in senso anche tecnico), come il Msi e il Pci impediva, insomma, la competizione bipolare per il governo.

Oggi invece e al contrario, dal 1992-94, si vuole addossare alla riforma elettorale la salvezza dell’intero edificio della democrazia maggioritaria. Il che è assolutamente sproporzionato e al di là della portata riformatrice di qualsivoglia legge elettorale.

Quando Renzi, e acriticamente tantissimi altri con lui a destra e a sinistra, afferma che la nuova legge elettorale deve far sì che la sera delle elezioni si sappia il vincitore e si abbia il “sindaco d’Italia” enuncia semplicemente e demagogicamente semplici slogan, vuoti di qualsiasi corrispondenza alla realtà. Se il “sindaco d’Italia” significa un primo ministro eletto direttamente, come nei comuni, allora occorre cambiare la costituzione e la forma di governo esistente. Quanto alla certezza assoluta del vincitore, questa è una pretesa che in nessuna democrazia parlamentare si ha, anche nella patria del maggioritario puro come l’Inghilterra (alle elezioni del 2010 non c’è stato alcun vincitore con la maggioranza dei seggi) e nella patria del parlamentarismo razionalizzato come la Germania (nel settembre 2013 non c’è stato alcun vincitore con la maggioranza dei seggi). In entrambe queste democrazie maggioritarie gli elettori non hanno potuto scegliere i governi, ma sono stati il parlamento e i partiti a formare governi di coalizione (quindi post-elettorali).

C’è solo un modo per avere la certezza della maggioranza dei seggi in Italia: superare il bicameralismo perfetto (con due voti di fiducia della Camera e del Senato è sempre possibile avere due maggioranze diverse o non avere la maggioranza in una Camera); avere un premio di maggioranza tale da assicurare il risultato (ma qui c’è la sentenza della Corte che vi si oppone, bisognerebbe mettere una soglia ragionevole e qui si stanno sbizzarrendo i vari dott. Stranamore); superare il tripolarismo e mezzo (Forza Italia e alleati, PD e alleati, Movimento 5 stelle, Scelta civica e centro) dell’attuale sistema partitico e affermare il bipolarismo (e questo riguarda il comportamento elettorale dei cittadini e come tale riguarda la politica e non incostituzionali premi di maggioranza).

In conclusione: prima sgombriamo il campo da una sorta di metafisica salvifica della riforma elettorale, meglio possiamo affrontare il problema.

 

La Sicilia del 18/12/2013
 

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