Favorire il dialogo culturale in tutte le sue forme tra i paesi della sponda Nord  e quelli della sponda Sud del Mediterraneo.
 
 
 
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Le finalità della Fondazione

 
La Fondazione si propone di agevolare il formarsi di una cultura dello sviluppo nelle regioni più deboli del paese con particolare riferimento alla regione Sicilia. In questo senso occorre creare azioni sinergiche tra le regioni meridionali finalizzate a realizzare in Sicilia efficienti politiche della formazione, nonché a favorire tutte le forme di partecipazione orientate ad una migliore tutela dei diritti. In questo contesto è importante favorire il dialogo culturale in tutte le sue forme tra i paesi della sponda Nord  e quelli della sponda Sud del Mediterraneo, individuando nella Sicilia il territorio ideale per ubicare iniziative culturali che facciano di essa un vero e proprio hub della conoscenza.
 

Gli impegni
     
 

Nel perseguimento dello scopo istituzionale, la fondazione si impegna a:

a) svolgere ricerche e corsi di formazione che mirino a diffondere la cultura della partecipazione consapevole;
b) promuovere attività editoriali limitatamente allo scopo istituzionale;
c) divulgare le proprie iniziative attraverso i mass media e la rete internet;
d) organizzare in Sicilia convegni e incontri a livello nazionale ed internazionale per facilitare il dialogo tra i popoli del mediterraneo;
e) svolgere indagini finalizzate alla migliore conoscenza delle condizioni di vita dei popoli della regione mediterranea;
f) supportare attraverso la documentazione e la ricerca le attività delle istituzioni impegnate negli ambiti in oggetto;
g) diventare membro di altre organizzazioni e stipulare convenzioni con altre istituzioni

 
     
 
 
   
   


 

Quel che al PD ora serve

è aprire una nuova pagina

Occorre saper soddisfare
la richiesta di innovazione dell’Italia
 

Oreste Massari

 

Il PD è da un lato l’unico vero, significativo partito – dotato cioè di un minimo di stabilità, di organizzazione, di regole e di prospettiva - nel panorama politico italiano di questi mesi, dall’altro continua a essere, come lo erano stati i suoi progenitori, soprattutto i PDS/DS, un partito inerziale, che vive cioè più per forza d’inerzia, che per propulsione propria.

Unico significativo partito, perché il resto del sistema partitico appare, a seconda della prospettiva che si vuole adottare, o come un deserto o come un territorio strutturalmente franoso o come un cantiere eternamente aperto o infine come un terreno di scorribanda  e di rapina (di voti) per l’incursore di turno.  Niente comunque di solido, strutturato e permanente.

Il sistema dei partiti continua a essere sempre all’insegna della provvisorietà e della contingenza, quasi liquefatto, in perenne fase di destrutturazione/ristrutturazione, dove quest’ultimo processo è sicuramente meno veloce ed efficace del primo.  E’ come una maionese impazzita. Dopo le ultime elezioni del febbraio 2013, il primo partito in termini di voti (25,5%, 8.689.458 votanti), il Movimento 5 Stelle, è un non-partito, come si autodefinisce, il cui futuro è del tutto aleatorio. Certamente non è un parliamentary fit party, per usare un’efficace ma sempre dimenticata espressione di Sartori (e basti pensare all’idea che hanno i due capi del Movimento sull’art. 67 della Costituzione e sulla disciplina interna).  Il terzo partito (il secondo è il PD, ma v. infra), il Popolo della Libertà (21,6%, 7.332.972 votanti,  il 15,8% in meno e 5.285.893 votanti in meno rispetto alle elezioni 2008) appare, in quest’autunno 2013, in fase di implosione,  dilaniato com’è tra coloro (i falchi e i lealisti) che vogliono impedire o ritardare la decadenza da senatore  di Berlusconi scaricandola sull’intero paese  (spallata al governo Letta delle larghe intese, fine della legislatura e nuove elezioni immediate) e coloro che, pur  rinnovando la professione di fede eterna  al capo fondatore, non sono disposti a sacrificare governo e legislatura, anche a costo di una scissione del partito (le colombe e i governativi).  E’ dunque un partito che sta finalmente superando, dopo vent’anni, lo stadio primitivo della dipendenza assoluta al capo fondatore, ma non si sa ancora se tale emancipazione e istituzionalizzazione vedrà ancora il partito unito, data oramai la distanza della divaricazione interna tra le diverse anime, o se la fine inevitabile della lunga leadership di Berlusconi non produca una deflagrazione in mille schegge del partito che fu.  Dietro questi tre partiti, che costituiscono o da soli o con qualche alleato i tre poli principali, nessuno dei quali ha superato alla Camera il 30% dei voti, c’è tutto un pullulare di partitini frutto di promesse mancate, di tentativi falliti, di ambizioni ridimensionate, di stanche e rituali sopravvivenze di nicchia.

Insomma, non è segno di esagerazione o di semplificazione costatare che l’unico partito che in qualche modo assomigli a un partito vero, come sono tutti i partiti di governo nelle democrazie occidentali, è il PD.

 Ma l’essere l’unico vero partito, lungi dal giustificarne tutta la sua vicenda, ne accresce enormemente le responsabilità sistemiche. Nel quadro partitico che abbiamo descritto il PD dovrebbe giganteggiare e porsi come un partito naturale di governo.  Se questo non è avvenuto nell’Italia di oggi, non è tanto perché l’Italia è preda dei vari populismi antipolitici, quanto perché le performances del PD, a cominciare dalla capacità di attrarre iscritti e voti a quella di comunicare e di proporre politiche chiare, a quella di proporsi come un grande partito della nazione, interclassista, rappresentativo di una larghissima maggioranza nel paese, sono state finora modestissime. 

La dinamica che il partito esibisce dalla sua nascita (ottobre 2007) a oggi non è certamente di espansione, ma di mera sopravvivenza per forza d’inerzia.

Tra le elezioni del 2008 e quelle ultime del febbraio 2013 il partito passa dal 33,2% al 25,4% (Camera), perdendo in termini assoluti ben 3.448.475 elettori, in una fase in cui la crisi del berlusconismo e degli altri partiti del centro-destra era più che avanzata. Qualcuno ha detto, causticamente ma realisticamente, che la mancata vittoria del PD a guida Bersani è come aver sbagliato un rigore a porta aperta.  E, in effetti, la campagna elettorale si è svolta nella piattezza più assoluta, tanto da risultare scontata e banale. Se guardiamo poi alla sociologia dell’elettorato che ha votato PD, risulta che questo partito “riformista” non attrae più – comparativamente agli altri due partiti/movimenti principali – i ceti che dovrebbe naturalmente rappresentare. Nelle recenti elezioni 2013, il PD ha avuto il 20% del voto operaio (a fronte del 29% del M5S e del 24% del Pdl), il 18% dei disoccupati (rispettivamente 33% e 25%), il 23% degli studenti (37% e 11%), il 15% di lavoratori autonomi e professionisti (39% e 20%). Solo tra i pensionati è il primo partito (37%). Il PD si conferma, dunque, dal punto di vista sociale come un partito con un elettorato vecchio, come un partito che è incapace di attrarre i voti dei settori più deboli, più dinamici e più giovani della società italiana. E naturalmente non può non esserci una correlazione tra vecchiezza dell’elettorato e povertà programmatica e di elaborazione.  La stessa dinamica si avverte per quanto concerne la membership: dagli 831.042 iscritti del 2009 (cifra che poneva il PD come secondo partito europeo) ai circa 250.000 del 2013 (ma prima delle primarie dell’8 dicembre).  Se dall’elettorato e dalla membership saliamo alla leadership, il quadro non cambia, semmai peggiora. Dall’atto di nascita alla fine del 2013, e cioè nell’arco di 6 anni, il partito avrà avuto ben 5 segretari (Veltroni, Franceschini, Bersani, Epifani, e come quinto il vincitore delle primarie dell’8 dicembre, quasi sicuramente Renzi). Quasi un segretario l’anno! Il che mostra con tutta evidenza la permanente instabilità al vertice del primo/secondo partito italiano, instabilità che peraltro si trasmette, o in qualche modo si riflette, al vertice governativo (dal 2005 a oggi ben 4 diversi presidenti del consiglio, laddove in Germania dal 2005 al 2017 si ha un solo cancelliere, ossia Angela Merkel).   E comunque il dato testimonia palesemente il mancato consolidamento al vertice del  partito di una leadership collettiva stabile e condivisa, che, com’è ovvio, è la condizione necessaria e imprescindibile dell’innovazione organizzativa, politica e programmatica nei partiti, in particolare di quelli di sinistra.

A queste valutazioni critiche ma realistiche si potrebbe opporre la grande innovazione e finora il grande successo delle primarie aperte agli elettori che il PD ha avuto il merito di promuovere e di inserire nel proprio codice genetico.  Ma il punto, o se si vuole il problema critico, è proprio questo. Il PD ha creduto di esaurire tutto il potenziale d’innovazione richiesto nella situazione italiana con e nelle primarie, trascurando tutte le altre dimensioni dell’innovazione.

Naturalmente, non si tratta di contestare le primarie in quanto tali – non si ha difficoltà a riconoscere che restano comunque l’unico fatto nuovo della politica italiana, e lo si è visto soprattutto nelle competizioni locali.  Si tratta, invece, di contestare tutto il progetto culturale del nuovo partito entro cui le primarie sono state assunte come funzionali e come termine esaustivo di ogni altra problematica.  Del resto, come controprova di questo ragionamento e prima ancora di entrare nel merito della genesi del partito (e, come sanno gli studiosi dei partiti, la genesi di questi imprime un marchio indelebile, difficile da cancellare), basti pensare all’effetto pressoché nullo che hanno avuto le primarie del 25 novembre 2012 per il candidato premier sui risultati elettorali del febbraio 2013.   Eppure queste primarie hanno visto una larghissima partecipazione (3.110.211 partecipanti al primo turno, niente di simile in Europa) e sono state salutate da molti osservatori e opinionisti come la prima manifestazione di una sicura marcia trionfale verso le immediatamente successive elezioni, quale dei due candidati in ballottaggio, Renzi e Bersani, avesse vinto.  Visto l’enorme prestigio conquistato e l’intensa e continuativa copertura mediatica ricevuta dal partito, c’erano pochi dubbi che il vincitore delle primarie sarebbe stato anche il prossimo premier del governo italiano.  Naturalmente, si può anche osservare che le primarie erano andate benissimo, ma che il vincitore Pierluigi Bersani non era poi così adatto al ruolo di candidato premier.  Ma è un modo diverso per dire che le primarie non hanno raggiunto l’obiettivo per cui erano state pensate: scegliere e legittimare il migliore candidato, mobilitare e motivare una vasta porzione dell’elettorato, allargare i confini di partecipazione, costruire un evento simbolico e mediatico di vasta portata, ecc.  Le primarie, insomma, non solo non sono la soluzione dei problemi del partito, ma possono addirittura costituire l’alibi per evitare ben altre innovazioni e altri bilanci critici.  Dicevamo che bisogna andare alla genesi del partito per capire i termini del problema.

Il nuovo partito nasce nel 2007 sotto la spinta impietosa degli avvenimenti di quel periodo. La coalizione di centro-sinistra aveva vinto rocambolescamente le elezioni del 2006 (l’Unione di Prodi aveva avuto solo 0,1% dei voti in più, circa 24.000 in termini assoluti, rispetto alla Casa della Libertà di Berlusconi), dando vita al II governo Prodi. Ma fu subito chiaro che il governo Prodi, espressione di una larghissima coalizione eterogenea e litigiosa che contava ben 11 soggetti tra partiti e partitini , era destinato all’insuccesso e al fallimento. Anzi, il governo Prodi del 2006-2008 ha rappresentato non solo il punto più basso del centrosinistra quanto a frammentazione, ma anche la fine dell’idea che ci potesse essere una democrazia valida dell’alternanza attraverso queste grandi coalizioni. E, difatti, tra il 2006 e il 2008 matura da parte tanto dei leader di centrosinistra quanto dei leader di centrodestra la convinzione dell’inutilità delle grandi ed estese coalizioni elettorali eterogenee e della necessità, invece, di costruire grandi partiti maggioritari. Iniziò Veltroni, parlando di “partito a vocazione maggioritaria”, seguito a ruota da Berlusconi. Per la verità l’idea di costruire un grande partito democratico era da sempre stata presente nel centrosinistra. Ma era rimasta solo un’ispirazione ideale. Solo nel contesto del governo Prodi del 2006-2008 l’idea si dimostrò appropriata, urgente e necessaria, giacché quel governo rappresentò il massimo di litigiosità, di frammentazione e di inconcludenza (non si poteva decidere niente di significativo a causa dei numerosi veti incrociati).  Quindi era impossibile governare e tutti si convinsero che queste grandi coalizioni non reggevano più. Si avviò così il tentativo di formare grandi partiti maggioritari attraverso fusioni, tanto a destra che a sinistra, per evitare che al governo ci fossero coalizioni paralizzate dal potere di veto e di ricatto dei piccoli partiti. Questa era l’idea.

In sé, sul piano astratto della dottrina, l’idea era sacrosanta. Chi scrive ha sempre sostenuto e scritto che non ci può essere democrazia maggioritaria, ossia dell’alternanza, senza partiti maggioritari.  E legittima, sacrosanta e opportuna era l’idea di aggregare e di unire le tradizioni del riformismo italiano (le cui sopravvissute espressioni politiche, PDS/DS e PPI/Margherita, semplicemente vivacchiavano e ciascuna delle quali era troppo debole o troppo poco ambiziosa per sostenere da sola l’ambizione di divenire una forza maggioritaria) di costituire un soggetto partitico maggioritario, di presentarsi come un partito nuovo nelle idee, nell’organizzazione, nel rapporto con l’elettorato e con i propri iscritti.

Sennonché il nuovo partito unificato se da un lato cercava di correggere, anche culturalmente, il difetto più grave del bipolarismo di coalizione (che era la frammentazione e l’eterogeneità delle coalizioni) realizzatosi fino allora proponendo una ricostruzione maggioritaria del sistema partitico (e la nuova legge elettorale del 2005, il Porcellum, sembrava sostenere quest’ambizione, viste le relative alte soglie e il premio di maggioranza), dall’altro incorporava come modello culturale di riferimento della nuova organizzazione un altrettanto grave difetto del bipolarismo italiano: il direttismo, ossia l’idea duvergeriana (ma distorta) della democrazia immediata. Il modello era quello della democrazia diretta (al limite del plebiscitarismo), basata sul circuito primarie aperte agli elettori-leader, e il cui rivestimento istituzionale doveva essere il cosiddetto premierato forte (elezione in qualche modo diretta del premier, potere di scioglimento, il destino della legislatura legato al suo destino personale, ecc.). In questo circuito contava poi solo la comunicazione del leader, tutto il resto non contava. Vedremo tra poco che cosa era tutto il resto. Intanto bisogna osservare che lo statuto assorbe come una spugna l’idea del direttismo e del premierato forte. Non a caso fu definito da un importante dirigente uno “statuto-mostro”. Basti citare il fatto che nell’impostazione iniziale lo statuto – in nome delle primarie e della democrazia diretta degli elettori - non prevedeva né iscritti né congresso, e il segretario non si poteva sostituire se non a costo di sciogliere tutto (l’Assemblea Nazionale), quasi si sciogliesse tutto il partito, il segretario è il candidato naturale alla premiership governativa nelle primarie di coalizione (e Bersani dovette far modificare lo statuto e inserire una norma transitoria per permettere a Renzi di partecipare alle primarie di coalizione del 25 novembre 2012) ecc.  Poi, per fortuna, qualcosa fu corretto. Furono introdotti gli iscritti, fu introdotta una norma secondo cui poi si può sostituire il segretario con i due terzi fino al termine del mandato del segretario dimissionario. E’ qualcosa, ma lo statuto resta ancora oggi effettivamente una mostruosità. Manca, ad esempio, la previsione di un congresso nazionale, inteso come organo rappresentativo di tutte le istanze del partito e come suprema istanza deliberativa. Queste funzioni sono assegnate alle primarie, giacché si afferma nell’art.9 che “la scelta dell’indirizzo politico [si ha] mediante l’elezione diretta del Segretario e dell’Assemblea nazionale”.

L’assolutizzazione delle primarie ha lasciato fuori, come dicevamo, tutto il resto di un partito politico. In particolare, ha lasciato fuori una partecipazione interna continuativa e deliberativa, e con ciò ha anche espunto qualsiasi capacità “cognitiva” (come sostiene Fabrizio Barca nel suo bel documento sul partito), elaborativa, programmatica.  Le primarie coinvolgono i singoli individui (iscritti o elettori che aderiscono a un albo) in un singolo atto in un particolare momento (la scelta del candidato segretario/premier o di altro candidato a carica monocratica). Lungi da noi la sottovalutazione della portata innovatrice di questo istituto. 

Ma il coinvolgimento degli iscritti/simpatizzanti finisce qui e l’apertura dell’organizzazione interna al popolo esterno si richiude subito dopo e il partito ridiventa “intermittente”. La “macchina partitica” continua a essere asfittica, dominata e controllata dalle varie anime, correnti, fazioni attorno a questo o quel dirigente in una continua e pervicace autoreferenzialità, ma chiusa a qualsivoglia contatto esterno.  I vari leader che si sono succeduti hanno innovato questa macchina autoreferenziale immettendovi meramente due-tre-quattro intellettuali/consiglieri di fiducia, facendoli poi eleggere come parlamentari, pensando così di avere assolto il compito di dare uno spessore culturale e cognitivo all’intero partito. E questo anche al di là dalle propensioni personali dei vari leader.

C’è stata, insomma, una sorta di “evaporazione” dei legami con il mondo intellettuale diffuso, con i centri di ricerca, con le Università, con le varie Fondazioni culturali orbitanti nell’area del centrosinistra, con le competenze multiformi, da sempre anche questi un punto di forza dei vecchi partiti popolari di massa e infrastruttura insostituibile anche per i partiti popolari più innovativi d’oggi.  Le varie Fondazioni sono solo feudi d’influenza personale dei vari leader. Ma Fondazioni e quei pochi centri di ricerca ancora sopravvissuti non entrano nel circuito cognitivo più generale del partito. E’ difficile ricordare qualche convegno/seminario significativo, su questa o quella politica pubblica. E’ difficile ricavare una visione generale, culturalmente fondata, analiticamente articolata, originalmente propositiva dai vari documenti programmatici, tutti contrassegnati da una sconfortante genericità se non banalità (a cominciare dal Manifesto dei Valori del 2008). E questo a causa dell’abbandono di quelli che erano i compiti fondamentali di un partito di sinistra con ambizione maggioritaria, ossia – per dirla con la terminologia di Barca – la continua “mobilitazione cognitiva” e l’incessante “sperimentalismo democratico”, che poi non sono altro che i compiti che Gramsci attribuiva al partito come “intellettuale collettivo” e che qualsiasi partito maggioritario di governo, soprattutto se socialdemocratico o democratico, comunque riformista, non può non perseguire.

Le primarie non risolvono il problema di impiantare nell’intero circuito e processo del partito una partecipazione continuata ai fini di una deliberazione collettiva. La leadership personale, anche quando autorevole, capace, attrattiva e seducente, non è sufficiente a riempire il vuoto del partito soprattutto nell’attività di governo. Il consenso alle politiche governative non viene solo dall’attrazione del leader personale, ma da un profondo processo di coinvolgimento nell’elaborazione e nella scelta delle politiche che solo strutture partecipate di un partito possono garantire, e alle quali si devono rapportare non solo singoli individui ma il mondo più vasto delle associazioni culturali, dei gruppi d’interesse, degli ordini professionali. Una leadership non in sintonia con il proprio partito, che non abbia questa larga infrastruttura sociale, non ha davanti a sé molta strada (l’esperienza di tutti i grandi partiti, conservatori e progressisti ce lo insegna). Si può essere anche presidenti, in sistemi presidenziali e semipresidenziali, ma senza un sostegno di un partito questi non riescono nel compito di realizzare efficacemente e con il sostegno popolare qualsivoglia politica. Anche le risorse della comunicazione politica sono insufficienti da sole, senza la qualità intrinseca di un prodotto che si voglia piazzare nel mercato politico. Non basta saper comunicare – anche se questo è ovviamente importante -, occorre comunicare cose vere, non artificiose. Non conta solo la confezione del prodotto, ma anche e soprattutto la qualità del prodotto. Sono due esigenze inseparabili.

Nelle elezioni del 2008 il PD si presentava al meglio delle sue possibilità rispetto al modello culturale di partito che aveva scelto: primarie con una partecipazione imponente (le primarie del 2007 videro la partecipazione di circa 3 milioni e mezzo di elettori), un leader popolare (Veltroni) in grado di svolgere un’efficace campagna mediatica. Ma tutto ciò non è bastato a vincere le elezioni, nonostante occorre riconoscere che il PD abbia ottenuto allora il massimo dei voti (33,2%) mai raggiunti e che sulla sconfitta abbia pesato in maniera determinante il ricordo pessimo del governo Prodi.  Nel breve periodo della leadership di Veltroni il partito nacque, fu pensato e costruito come un partito “leggero”, anzi liquido, dominato di un’ansia di “nuovismo” tanto effimero quanto inefficace. Ed è singolare che proprio Veltroni, guardando allo stato della politica italiana, PD compreso, arrivi oggi a lamentarsi del fatto che “…prevale dovunque la politica dell’istante, senza passato e senza futuro, proiettata nella polemica del giorno…Tutto in Italia è molto leggero, volatile, privo di radici e nello stesso tempo di prospettiva. Non basta mettere insieme pezzetti di programma; ci vuole una visione generale, un’idea dell’Italia…[ci vuole] profondità..” (intervista al Corriere della Sera del 20 ottobre 2013). Singolare proprio perché fu proprio Veltroni a teorizzare la “leggerezza” del partito e a costruire il nuovo partito come una tabula rasa (da cui lo stesso nome di democratico, e per cui il riferimento storico alle radici nel movimento del socialismo riformista era estirpato o comunque annacquato in un generico universalismo dei valori liberal). Comunque, meglio questo ripensamento oggi.

Dopo la leadership di Veltroni il nuovo partito attraversò una sorta di lenta consunzione.  Perso il suo leader ispiratore, il partito si rivelò essere “un amalgama mal riuscito”, secondo la cruda ammissione di D’Alema, permanentemente bloccato dai veti incrociati delle sue componenti costitutive tanto da farlo sembrare più un pachiderma immobile che un grande partito con una sua visione e una sua iniziativa. Difatti, il partito non ha mai fatto in questi anni una vera e originale proposta netta, proprio perché un partito internamente paralizzato e condizionato dalla “politica dell’istante”, dove tutto è contingente e dove non c’è mai tempo di pensare in e con “profondità”. Né l’avvento di una leadership culturalmente diversa, come quella di Pierluigi Bersani, che pure era avvertito della necessità di superare il “nuovismo” di Veltroni e di ricostruire un vero partito – è merito di Bersani non aver perseguito l’idea della personalizzazione, non mettendo il suo nome sulla lista -, ha cambiato granché la situazione. Le forze e le idee si sono dimostrate povere e al di sotto delle aspettative. Semmai, si è fatto anche qualche passo indietro a causa di una certa patina di apparato che il nuovo leader possedeva e di una qualche burocratica protervia a non accettare immediatamente i risultati delle urne. Difatti, la gestione post-elettorale di Bersani – dalla formazione di un nuovo governo all’elezione del nuovo presidente della Repubblica – è stata disastrosa.

Con la conquista della leadership di partito di Renzi – sicuramente ottenuta quando questo articolo sarà pubblicato -, si apre una pagina nuova. Per la prima volta il PD sarà guidato (a parte Franceschini ed Epifani, segreterie momentanee e di passaggio) da un non ex-comunista. Renzi non appartiene al quel gruppo di comunisti sopravvissuti, che non credevano più non solo al comunismo ma anche al socialismo socialdemocratico, che non credevano più al partito, che insomma, alcuni con molto disincanto e persino con cinismo, non erano in grado di prospettare un futuro, perché appesantiti e schiacciati da un passato comunista ingombrante e sconfitto dalla storia. Un gruppo che aveva gettato il bambino (il socialismo riformista) con l’acqua sporca (il comunismo). Renzi è di un’altra storia. E’ anche lui un politico di professione, ma è giovanissimo, ha fatto il presidente di provincia e il sindaco, ha una straordinaria capacità comunicativa, qualità che lo rende adattissimo a condurre e probabilmente vincere una campagna elettorale, ha anche idee programmatiche innovative, è intelligente, attraente, simpatico, seducente, spregiudicato, ambizioso. Oggi è una speranza e una potenzialità, nel bene e nel male, per il partito – e in qualche modo per l’Italia, anche se non bisogna dimenticare che Enrico Letta si è rivelato un ottimo premier – e dunque va seguito senza pregiudizi o ostilità preconcetti. Speranza e potenzialità tanto più realizzabili quanto più il panorama politico complessivo appare deprimente. 

Concesso di buon  grado tutto questo, non si può ignorare che il modello di partito costruito è sbagliato e del tutto inadeguato, anche nel compito di sostenere una leadership personale di successo. Un partito (o coalizione) non può vincere senza una leadership personale adeguata. Ma una leadership personale, anche straordinaria, non può fare a meno di un partito che non sia semplicemente o un comitato elettorale o un ricettacolo di vecchi e nuovi pezzi di oligarchie interne. Se Renzi mette la sua pur legittima ambizione personale al servizio di questo progetto, diciamo, collettivo, allora può (ri)iniziare la missione del partito democratico al servizio del paese.

 

La Sicilia del 26/10/2013
 

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