Il PD è da un lato l’unico vero,
significativo partito – dotato cioè di un minimo di
stabilità, di organizzazione, di regole e di prospettiva -
nel panorama politico italiano di questi mesi, dall’altro
continua a essere, come lo erano stati i suoi progenitori,
soprattutto i PDS/DS, un partito inerziale, che vive cioè
più per forza d’inerzia, che per propulsione propria.
Unico significativo partito, perché il
resto del sistema partitico appare, a seconda della
prospettiva che si vuole adottare, o come un deserto o come
un territorio strutturalmente franoso o come un cantiere
eternamente aperto o infine come un terreno di scorribanda
e di rapina (di voti) per l’incursore di turno. Niente
comunque di solido, strutturato e permanente.
Il sistema dei partiti continua a
essere sempre all’insegna della provvisorietà e della
contingenza, quasi liquefatto, in perenne fase di
destrutturazione/ristrutturazione, dove quest’ultimo
processo è sicuramente meno veloce ed efficace del primo.
E’ come una maionese impazzita. Dopo le ultime elezioni del
febbraio 2013, il primo partito in termini di voti (25,5%,
8.689.458 votanti), il Movimento 5 Stelle, è un non-partito,
come si autodefinisce, il cui futuro è del tutto aleatorio.
Certamente non è un parliamentary fit party, per usare
un’efficace ma sempre dimenticata espressione di Sartori (e
basti pensare all’idea che hanno i due capi del Movimento
sull’art. 67 della Costituzione e sulla disciplina
interna). Il terzo partito (il secondo è il PD, ma v. infra),
il Popolo della Libertà (21,6%, 7.332.972 votanti, il 15,8%
in meno e 5.285.893 votanti in meno rispetto alle elezioni
2008) appare, in quest’autunno 2013, in fase di implosione,
dilaniato com’è tra coloro (i falchi e i lealisti) che
vogliono impedire o ritardare la decadenza da senatore di
Berlusconi scaricandola sull’intero paese (spallata al
governo Letta delle larghe intese, fine della legislatura e
nuove elezioni immediate) e coloro che, pur rinnovando la
professione di fede eterna al capo fondatore, non sono
disposti a sacrificare governo e legislatura, anche a costo
di una scissione del partito (le colombe e i governativi).
E’ dunque un partito che sta finalmente superando, dopo
vent’anni, lo stadio primitivo della dipendenza assoluta al
capo fondatore, ma non si sa ancora se tale emancipazione e
istituzionalizzazione vedrà ancora il partito unito, data
oramai la distanza della divaricazione interna tra le
diverse anime, o se la fine inevitabile della lunga
leadership di Berlusconi non produca una deflagrazione in
mille schegge del partito che fu. Dietro questi tre
partiti, che costituiscono o da soli o con qualche alleato i
tre poli principali, nessuno dei quali ha superato alla
Camera il 30% dei voti, c’è tutto un pullulare di partitini
frutto di promesse mancate, di tentativi falliti, di
ambizioni ridimensionate, di stanche e rituali sopravvivenze
di nicchia.
Insomma, non è segno di esagerazione o
di semplificazione costatare che l’unico partito che in
qualche modo assomigli a un partito vero, come sono tutti i
partiti di governo nelle democrazie occidentali, è il PD.
Ma l’essere l’unico vero partito,
lungi dal giustificarne tutta la sua vicenda, ne accresce
enormemente le responsabilità sistemiche. Nel quadro
partitico che abbiamo descritto il PD dovrebbe giganteggiare
e porsi come un partito naturale di governo. Se questo non
è avvenuto nell’Italia di oggi, non è tanto perché l’Italia
è preda dei vari populismi antipolitici, quanto perché le
performances del PD, a cominciare dalla capacità di attrarre
iscritti e voti a quella di comunicare e di proporre
politiche chiare, a quella di proporsi come un grande
partito della nazione, interclassista, rappresentativo di
una larghissima maggioranza nel paese, sono state finora
modestissime.
La dinamica che il partito esibisce
dalla sua nascita (ottobre 2007) a oggi non è certamente di
espansione, ma di mera sopravvivenza per forza d’inerzia.
Tra le elezioni del 2008 e quelle
ultime del febbraio 2013 il partito passa dal 33,2% al 25,4%
(Camera), perdendo in termini assoluti ben 3.448.475
elettori, in una fase in cui la crisi del berlusconismo e
degli altri partiti del centro-destra era più che avanzata.
Qualcuno ha detto, causticamente ma realisticamente, che la
mancata vittoria del PD a guida Bersani è come aver
sbagliato un rigore a porta aperta. E, in effetti, la
campagna elettorale si è svolta nella piattezza più
assoluta, tanto da risultare scontata e banale. Se guardiamo
poi alla sociologia dell’elettorato che ha votato PD,
risulta che questo partito “riformista” non attrae più –
comparativamente agli altri due partiti/movimenti principali
– i ceti che dovrebbe naturalmente rappresentare. Nelle
recenti elezioni 2013, il PD ha avuto il 20% del voto
operaio (a fronte del 29% del M5S e del 24% del Pdl), il 18%
dei disoccupati (rispettivamente 33% e 25%), il 23% degli
studenti (37% e 11%), il 15% di lavoratori autonomi e
professionisti (39% e 20%). Solo tra i pensionati è il primo
partito (37%). Il PD si conferma, dunque, dal punto di vista
sociale come un partito con un elettorato vecchio, come un
partito che è incapace di attrarre i voti dei settori più
deboli, più dinamici e più giovani della società italiana. E
naturalmente non può non esserci una correlazione tra
vecchiezza dell’elettorato e povertà programmatica e di
elaborazione. La stessa dinamica si avverte per quanto
concerne la membership: dagli 831.042 iscritti del 2009
(cifra che poneva il PD come secondo partito europeo) ai
circa 250.000 del 2013 (ma prima delle primarie dell’8
dicembre). Se dall’elettorato e dalla membership saliamo
alla leadership, il quadro non cambia, semmai peggiora.
Dall’atto di nascita alla fine del 2013, e cioè nell’arco di
6 anni, il partito avrà avuto ben 5 segretari (Veltroni,
Franceschini, Bersani, Epifani, e come quinto il vincitore
delle primarie dell’8 dicembre, quasi sicuramente Renzi).
Quasi un segretario l’anno! Il che mostra con tutta evidenza
la permanente instabilità al vertice del primo/secondo
partito italiano, instabilità che peraltro si trasmette, o
in qualche modo si riflette, al vertice governativo (dal
2005 a oggi ben 4 diversi presidenti del consiglio, laddove
in Germania dal 2005 al 2017 si ha un solo cancelliere,
ossia Angela Merkel). E comunque il dato testimonia
palesemente il mancato consolidamento al vertice del
partito di una leadership collettiva stabile e condivisa,
che, com’è ovvio, è la condizione necessaria e
imprescindibile dell’innovazione organizzativa, politica e
programmatica nei partiti, in particolare di quelli di
sinistra.
A queste valutazioni critiche ma
realistiche si potrebbe opporre la grande innovazione e
finora il grande successo delle primarie aperte agli
elettori che il PD ha avuto il merito di promuovere e di
inserire nel proprio codice genetico. Ma il punto, o se si
vuole il problema critico, è proprio questo. Il PD ha
creduto di esaurire tutto il potenziale d’innovazione
richiesto nella situazione italiana con e nelle primarie,
trascurando tutte le altre dimensioni dell’innovazione.
Naturalmente, non si tratta di
contestare le primarie in quanto tali – non si ha difficoltà
a riconoscere che restano comunque l’unico fatto nuovo della
politica italiana, e lo si è visto soprattutto nelle
competizioni locali. Si tratta, invece, di contestare tutto
il progetto culturale del nuovo partito entro cui le
primarie sono state assunte come funzionali e come termine
esaustivo di ogni altra problematica. Del resto, come
controprova di questo ragionamento e prima ancora di entrare
nel merito della genesi del partito (e, come sanno gli
studiosi dei partiti, la genesi di questi imprime un marchio
indelebile, difficile da cancellare), basti pensare
all’effetto pressoché nullo che hanno avuto le primarie del
25 novembre 2012 per il candidato premier sui risultati
elettorali del febbraio 2013. Eppure queste primarie hanno
visto una larghissima partecipazione (3.110.211 partecipanti
al primo turno, niente di simile in Europa) e sono state
salutate da molti osservatori e opinionisti come la prima
manifestazione di una sicura marcia trionfale verso le
immediatamente successive elezioni, quale dei due candidati
in ballottaggio, Renzi e Bersani, avesse vinto. Visto
l’enorme prestigio conquistato e l’intensa e continuativa
copertura mediatica ricevuta dal partito, c’erano pochi
dubbi che il vincitore delle primarie sarebbe stato anche il
prossimo premier del governo italiano. Naturalmente, si può
anche osservare che le primarie erano andate benissimo, ma
che il vincitore Pierluigi Bersani non era poi così adatto
al ruolo di candidato premier. Ma è un modo diverso per
dire che le primarie non hanno raggiunto l’obiettivo per cui
erano state pensate: scegliere e legittimare il migliore
candidato, mobilitare e motivare una vasta porzione
dell’elettorato, allargare i confini di partecipazione,
costruire un evento simbolico e mediatico di vasta portata,
ecc. Le primarie, insomma, non solo non sono la soluzione
dei problemi del partito, ma possono addirittura costituire
l’alibi per evitare ben altre innovazioni e altri bilanci
critici. Dicevamo che bisogna andare alla genesi del
partito per capire i termini del problema.
Il nuovo partito nasce nel 2007 sotto
la spinta impietosa degli avvenimenti di quel periodo. La
coalizione di centro-sinistra aveva vinto rocambolescamente
le elezioni del 2006 (l’Unione di Prodi aveva avuto solo
0,1% dei voti in più, circa 24.000 in termini assoluti,
rispetto alla Casa della Libertà di Berlusconi), dando vita
al II governo Prodi. Ma fu subito chiaro che il governo
Prodi, espressione di una larghissima coalizione eterogenea
e litigiosa che contava ben 11 soggetti tra partiti e
partitini , era destinato all’insuccesso e al fallimento.
Anzi, il governo Prodi del 2006-2008 ha rappresentato non
solo il punto più basso del centrosinistra quanto a
frammentazione, ma anche la fine dell’idea che ci potesse
essere una democrazia valida dell’alternanza attraverso
queste grandi coalizioni. E, difatti, tra il 2006 e il 2008
matura da parte tanto dei leader di centrosinistra quanto
dei leader di centrodestra la convinzione dell’inutilità
delle grandi ed estese coalizioni elettorali eterogenee e
della necessità, invece, di costruire grandi partiti
maggioritari. Iniziò Veltroni, parlando di “partito a
vocazione maggioritaria”, seguito a ruota da Berlusconi. Per
la verità l’idea di costruire un grande partito democratico
era da sempre stata presente nel centrosinistra. Ma era
rimasta solo un’ispirazione ideale. Solo nel contesto del
governo Prodi del 2006-2008 l’idea si dimostrò appropriata,
urgente e necessaria, giacché quel governo rappresentò il
massimo di litigiosità, di frammentazione e di inconcludenza
(non si poteva decidere niente di significativo a causa dei
numerosi veti incrociati). Quindi era impossibile governare
e tutti si convinsero che queste grandi coalizioni non
reggevano più. Si avviò così il tentativo di formare grandi
partiti maggioritari attraverso fusioni, tanto a destra che
a sinistra, per evitare che al governo ci fossero coalizioni
paralizzate dal potere di veto e di ricatto dei piccoli
partiti. Questa era l’idea.
In sé, sul piano astratto della
dottrina, l’idea era sacrosanta. Chi scrive ha sempre
sostenuto e scritto che non ci può essere democrazia
maggioritaria, ossia dell’alternanza, senza partiti
maggioritari. E legittima, sacrosanta e opportuna era
l’idea di aggregare e di unire le tradizioni del riformismo
italiano (le cui sopravvissute espressioni politiche, PDS/DS
e PPI/Margherita, semplicemente vivacchiavano e ciascuna
delle quali era troppo debole o troppo poco ambiziosa per
sostenere da sola l’ambizione di divenire una forza
maggioritaria) di costituire un soggetto partitico
maggioritario, di presentarsi come un partito nuovo nelle
idee, nell’organizzazione, nel rapporto con l’elettorato e
con i propri iscritti.
Sennonché il nuovo partito unificato se
da un lato cercava di correggere, anche culturalmente, il
difetto più grave del bipolarismo di coalizione (che era la
frammentazione e l’eterogeneità delle coalizioni)
realizzatosi fino allora proponendo una ricostruzione
maggioritaria del sistema partitico (e la nuova legge
elettorale del 2005, il Porcellum, sembrava sostenere
quest’ambizione, viste le relative alte soglie e il premio
di maggioranza), dall’altro incorporava come modello
culturale di riferimento della nuova organizzazione un
altrettanto grave difetto del bipolarismo italiano: il
direttismo, ossia l’idea duvergeriana (ma distorta) della
democrazia immediata. Il modello era quello della democrazia
diretta (al limite del plebiscitarismo), basata sul circuito
primarie aperte agli elettori-leader, e il cui rivestimento
istituzionale doveva essere il cosiddetto premierato forte
(elezione in qualche modo diretta del premier, potere di
scioglimento, il destino della legislatura legato al suo
destino personale, ecc.). In questo circuito contava poi
solo la comunicazione del leader, tutto il resto non
contava. Vedremo tra poco che cosa era tutto il resto.
Intanto bisogna osservare che lo statuto assorbe come una
spugna l’idea del direttismo e del premierato forte. Non a
caso fu definito da un importante dirigente uno
“statuto-mostro”. Basti citare il fatto che
nell’impostazione iniziale lo statuto – in nome delle
primarie e della democrazia diretta degli elettori - non
prevedeva né iscritti né congresso, e il segretario non si
poteva sostituire se non a costo di sciogliere tutto
(l’Assemblea Nazionale), quasi si sciogliesse tutto il
partito, il segretario è il candidato naturale alla
premiership governativa nelle primarie di coalizione (e
Bersani dovette far modificare lo statuto e inserire una
norma transitoria per permettere a Renzi di partecipare alle
primarie di coalizione del 25 novembre 2012) ecc. Poi, per
fortuna, qualcosa fu corretto. Furono introdotti gli
iscritti, fu introdotta una norma secondo cui poi si può
sostituire il segretario con i due terzi fino al termine del
mandato del segretario dimissionario. E’ qualcosa, ma lo
statuto resta ancora oggi effettivamente una mostruosità.
Manca, ad esempio, la previsione di un congresso nazionale,
inteso come organo rappresentativo di tutte le istanze del
partito e come suprema istanza deliberativa. Queste funzioni
sono assegnate alle primarie, giacché si afferma nell’art.9
che “la scelta dell’indirizzo politico [si ha] mediante
l’elezione diretta del Segretario e dell’Assemblea
nazionale”.
L’assolutizzazione delle primarie ha
lasciato fuori, come dicevamo, tutto il resto di un partito
politico. In particolare, ha lasciato fuori una
partecipazione interna continuativa e deliberativa, e con
ciò ha anche espunto qualsiasi capacità “cognitiva” (come
sostiene Fabrizio Barca nel suo bel documento sul partito),
elaborativa, programmatica. Le primarie coinvolgono i
singoli individui (iscritti o elettori che aderiscono a un
albo) in un singolo atto in un particolare momento (la
scelta del candidato segretario/premier o di altro candidato
a carica monocratica). Lungi da noi la sottovalutazione
della portata innovatrice di questo istituto.
Ma il coinvolgimento degli
iscritti/simpatizzanti finisce qui e l’apertura
dell’organizzazione interna al popolo esterno si richiude
subito dopo e il partito ridiventa “intermittente”. La
“macchina partitica” continua a essere asfittica, dominata e
controllata dalle varie anime, correnti, fazioni attorno a
questo o quel dirigente in una continua e pervicace
autoreferenzialità, ma chiusa a qualsivoglia contatto
esterno. I vari leader che si sono succeduti hanno innovato
questa macchina autoreferenziale immettendovi meramente
due-tre-quattro intellettuali/consiglieri di fiducia,
facendoli poi eleggere come parlamentari, pensando così di
avere assolto il compito di dare uno spessore culturale e
cognitivo all’intero partito. E questo anche al di là dalle
propensioni personali dei vari leader.
C’è stata, insomma, una sorta di
“evaporazione” dei legami con il mondo intellettuale
diffuso, con i centri di ricerca, con le Università, con le
varie Fondazioni culturali orbitanti nell’area del
centrosinistra, con le competenze multiformi, da sempre
anche questi un punto di forza dei vecchi partiti popolari
di massa e infrastruttura insostituibile anche per i partiti
popolari più innovativi d’oggi. Le varie Fondazioni sono
solo feudi d’influenza personale dei vari leader. Ma
Fondazioni e quei pochi centri di ricerca ancora
sopravvissuti non entrano nel circuito cognitivo più
generale del partito. E’ difficile ricordare qualche
convegno/seminario significativo, su questa o quella
politica pubblica. E’ difficile ricavare una visione
generale, culturalmente fondata, analiticamente articolata,
originalmente propositiva dai vari documenti programmatici,
tutti contrassegnati da una sconfortante genericità se non
banalità (a cominciare dal Manifesto dei Valori del 2008). E
questo a causa dell’abbandono di quelli che erano i compiti
fondamentali di un partito di sinistra con ambizione
maggioritaria, ossia – per dirla con la terminologia di
Barca – la continua “mobilitazione cognitiva” e l’incessante
“sperimentalismo democratico”, che poi non sono altro che i
compiti che Gramsci attribuiva al partito come
“intellettuale collettivo” e che qualsiasi partito
maggioritario di governo, soprattutto se socialdemocratico o
democratico, comunque riformista, non può non perseguire.
Le primarie non risolvono il problema
di impiantare nell’intero circuito e processo del partito
una partecipazione continuata ai fini di una deliberazione
collettiva. La leadership personale, anche quando
autorevole, capace, attrattiva e seducente, non è
sufficiente a riempire il vuoto del partito soprattutto
nell’attività di governo. Il consenso alle politiche
governative non viene solo dall’attrazione del leader
personale, ma da un profondo processo di coinvolgimento
nell’elaborazione e nella scelta delle politiche che solo
strutture partecipate di un partito possono garantire, e
alle quali si devono rapportare non solo singoli individui
ma il mondo più vasto delle associazioni culturali, dei
gruppi d’interesse, degli ordini professionali. Una
leadership non in sintonia con il proprio partito, che non
abbia questa larga infrastruttura sociale, non ha davanti a
sé molta strada (l’esperienza di tutti i grandi partiti,
conservatori e progressisti ce lo insegna). Si può essere
anche presidenti, in sistemi presidenziali e
semipresidenziali, ma senza un sostegno di un partito questi
non riescono nel compito di realizzare efficacemente e con
il sostegno popolare qualsivoglia politica. Anche le risorse
della comunicazione politica sono insufficienti da sole,
senza la qualità intrinseca di un prodotto che si voglia
piazzare nel mercato politico. Non basta saper comunicare –
anche se questo è ovviamente importante -, occorre
comunicare cose vere, non artificiose. Non conta solo la
confezione del prodotto, ma anche e soprattutto la qualità
del prodotto. Sono due esigenze inseparabili.
Nelle elezioni del 2008 il PD si
presentava al meglio delle sue possibilità rispetto al
modello culturale di partito che aveva scelto: primarie con
una partecipazione imponente (le primarie del 2007 videro la
partecipazione di circa 3 milioni e mezzo di elettori), un
leader popolare (Veltroni) in grado di svolgere un’efficace
campagna mediatica. Ma tutto ciò non è bastato a vincere le
elezioni, nonostante occorre riconoscere che il PD abbia
ottenuto allora il massimo dei voti (33,2%) mai raggiunti e
che sulla sconfitta abbia pesato in maniera determinante il
ricordo pessimo del governo Prodi. Nel breve periodo della
leadership di Veltroni il partito nacque, fu pensato e
costruito come un partito “leggero”, anzi liquido, dominato
di un’ansia di “nuovismo” tanto effimero quanto inefficace.
Ed è singolare che proprio Veltroni, guardando allo stato
della politica italiana, PD compreso, arrivi oggi a
lamentarsi del fatto che “…prevale dovunque la politica
dell’istante, senza passato e senza futuro, proiettata nella
polemica del giorno…Tutto in Italia è molto leggero,
volatile, privo di radici e nello stesso tempo di
prospettiva. Non basta mettere insieme pezzetti di
programma; ci vuole una visione generale, un’idea
dell’Italia…[ci vuole] profondità..” (intervista al Corriere
della Sera del 20 ottobre 2013). Singolare proprio perché fu
proprio Veltroni a teorizzare la “leggerezza” del partito e
a costruire il nuovo partito come una tabula rasa (da cui lo
stesso nome di democratico, e per cui il riferimento storico
alle radici nel movimento del socialismo riformista era
estirpato o comunque annacquato in un generico universalismo
dei valori liberal). Comunque, meglio questo ripensamento
oggi.
Dopo la leadership di Veltroni il nuovo
partito attraversò una sorta di lenta consunzione. Perso il
suo leader ispiratore, il partito si rivelò essere “un
amalgama mal riuscito”, secondo la cruda ammissione di
D’Alema, permanentemente bloccato dai veti incrociati delle
sue componenti costitutive tanto da farlo sembrare più un
pachiderma immobile che un grande partito con una sua
visione e una sua iniziativa. Difatti, il partito non ha mai
fatto in questi anni una vera e originale proposta netta,
proprio perché un partito internamente paralizzato e
condizionato dalla “politica dell’istante”, dove tutto è
contingente e dove non c’è mai tempo di pensare in e con
“profondità”. Né l’avvento di una leadership culturalmente
diversa, come quella di Pierluigi Bersani, che pure era
avvertito della necessità di superare il “nuovismo” di
Veltroni e di ricostruire un vero partito – è merito di
Bersani non aver perseguito l’idea della personalizzazione,
non mettendo il suo nome sulla lista -, ha cambiato granché
la situazione. Le forze e le idee si sono dimostrate povere
e al di sotto delle aspettative. Semmai, si è fatto anche
qualche passo indietro a causa di una certa patina di
apparato che il nuovo leader possedeva e di una qualche
burocratica protervia a non accettare immediatamente i
risultati delle urne. Difatti, la gestione post-elettorale
di Bersani – dalla formazione di un nuovo governo
all’elezione del nuovo presidente della Repubblica – è stata
disastrosa.
Con la conquista della leadership di
partito di Renzi – sicuramente ottenuta quando questo
articolo sarà pubblicato -, si apre una pagina nuova. Per la
prima volta il PD sarà guidato (a parte Franceschini ed
Epifani, segreterie momentanee e di passaggio) da un non
ex-comunista. Renzi non appartiene al quel gruppo di
comunisti sopravvissuti, che non credevano più non solo al
comunismo ma anche al socialismo socialdemocratico, che non
credevano più al partito, che insomma, alcuni con molto
disincanto e persino con cinismo, non erano in grado di
prospettare un futuro, perché appesantiti e schiacciati da
un passato comunista ingombrante e sconfitto dalla storia.
Un gruppo che aveva gettato il bambino (il socialismo
riformista) con l’acqua sporca (il comunismo). Renzi è di
un’altra storia. E’ anche lui un politico di professione, ma
è giovanissimo, ha fatto il presidente di provincia e il
sindaco, ha una straordinaria capacità comunicativa, qualità
che lo rende adattissimo a condurre e probabilmente vincere
una campagna elettorale, ha anche idee programmatiche
innovative, è intelligente, attraente, simpatico, seducente,
spregiudicato, ambizioso. Oggi è una speranza e una
potenzialità, nel bene e nel male, per il partito – e in
qualche modo per l’Italia, anche se non bisogna dimenticare
che Enrico Letta si è rivelato un ottimo premier – e dunque
va seguito senza pregiudizi o ostilità preconcetti. Speranza
e potenzialità tanto più realizzabili quanto più il panorama
politico complessivo appare deprimente.
Concesso di buon grado tutto questo,
non si può ignorare che il modello di partito costruito è
sbagliato e del tutto inadeguato, anche nel compito di
sostenere una leadership personale di successo. Un partito
(o coalizione) non può vincere senza una leadership
personale adeguata. Ma una leadership personale, anche
straordinaria, non può fare a meno di un partito che non sia
semplicemente o un comitato elettorale o un ricettacolo di
vecchi e nuovi pezzi di oligarchie interne. Se Renzi mette
la sua pur legittima ambizione personale al servizio di
questo progetto, diciamo, collettivo, allora può (ri)iniziare
la missione del partito democratico al servizio del paese.
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