In
queste ore nessuno, dentro e fuori l’Italia, sa se il paese
continuerà ad avere un governo, se la condanna inflitta al
leader politico del centrodestra avrà ripercussioni tali da
mettere a repentaglio la tenuta stessa della democrazia
italiana fino all’evocazione ieri della guerra civile da
parte di Sandro Bondi, pure uomo politico finora apparso
moderato, se le minacce e i ricatti alle istituzioni e al
Capo dello Stato (tipo: se non viene data la grazia a
Berlusconi, allora è rottura totale) siano solo frutto di
una rabbia passeggera ed esasperata, come tale anche
comprensibile, oppure qualcosa di più drammatico.
Ma già
queste nubi e queste incertezze che incombono sulla
Repubblica danno la misura dell’anomalia italiana. In
nessuna democrazia occidentale è mai accaduto che il destino
delle istituzioni e della pacifica convivenza tra le parti
politiche fosse legato al destino personale di un singolo
uomo, per quanto importante esso sia e per quanto consenso
esso o il suo partito riesca a raccogliere. Solo nei regimi
assolutistici e dittatoriali c’è un legame indissolubile tra
una singola personalità (monarca o dittatore) e il regime,
tanto che per rovesciare la prima bisogna rovesciare anche
il secondo. In nessuna democrazia occidentale l’uscita di
scena politica di un’importante leader e governante ha avuto
o ha minacciato di avere convulsioni tali da mettere a
repentaglio il bene e l’interesse comune. E questo perché
la democrazia, intesa come liberaldemocrazia, è quello stato
di diritto in cui tutti sono eguali e in cui governa
l’impersonalità della legge, oltre che il consenso popolare.
In democrazia nessuno può ergersi al di sopra delle leggi e
dell’ordinamento democratico complessivo, anche se ha dalla
sua parte un cospicuo consenso elettorale.
Comunque
sia, al di là della dottrina, nella vita pratica delle
democrazie abbiamo avuto sempre numerosi esempi di leader e
governanti costretti alle dimissioni involontarie e
all’uscita dalla vita politica, senza che questo avesse
conseguenze sulle istituzioni e sugli stessi partiti di
appartenenza: dal presidente USA Nixon costretto alle
dimissioni nel 1974 per evitare l’impeachment del Congresso
all’ex Cancelliere tedesco Kohl, artefice della
riunificazione tedesca, che nel 1999 dovette abbandonare la
vita politica per lo scandalo di fondi neri al suo partito.
In più tutti
i grandi leader occidentali, di destra, di centro e di
sinistra, hanno una vita politica media da protagonisti che
non supera mai normalmente i 15 anni: i presidenti americani
8 anni, poi escono dalla scena politica, la Thatcher 11
anni, Blair 10 anni (13 come leader di partito), Mitterrand
14. Solo Helmut Kohl è un’eccezione con 25 anni di
leadership.
E nessuno
dei grandi leader democratici ha mai avuto, controllato e
dominato un partito personale alla stregua del dominio che
Berlusconi ha esercitato e continua a esercitare, anche in
queste ore drammatiche, sul suo. Anche questa è una anomalia
profonda. La democrazia ammette e anzi sollecita forti
personalità al posto di comando, ma non può ammettere i
partiti interamente personali. Nelle democrazie la regola è
che i partiti, quando sono veri, restano e continuano a
vivere anche quando i loro leader, quand’anche questi
fossero stati fondatori, sono costretti ad abbandonare la
scena per i più disparati motivi.
La condanna
inferta dalla Cassazione a Berlusconi è inappellabile e
irrevocabile. Può non piacere, può essere discussa (ci
mancherebbe altro!), ma deve essere osservata e applicata.
Non ci sono né alternative, né scorciatoie, né ricatti e
minacce che tengano. Altrimenti è la sovversione dello stato
di diritto, è il rifiuto antidemocratico dell’uguaglianza
della legge, è la negazione illiberale del primato della
legge e della separazione dei poteri. Se Berlusconi si
ribellasse alla sentenza del terzo grado di giudizio, ogni
cittadino condannato in via definitiva potrebbe fare
altrettanto. Non abbiamo scelta: o ci fidiamo del nostro
ordinamento giudiziario nel senso dello stato di diritto
(fatte salve le doverose critiche alle pur gravi disfunzioni
e la necessità di riforma), oppure ognuno è giudice in
proprio (e sarebbe l’anarchia), oppure a decidere sarebbe il
plebiscito popolare (quello che mandò a morte Gesù
preferendogli Barabba).
Più presto
l’Italia si libera della sindrome di Berlusconi, meglio sarà
per tutti.
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