Nei giorni scorsi
Francesco Merlo, in un articolo apparso su Repubblica, ha
affermato, più o meno, che l’autonomia speciale anziché
essere di aiuto alla Sicilia ne ha favorito il malgoverno.
Com’era prevedibile, si è subito aperta una vivace
discussione tra chi la pensa come Merlo, chi ritiene che
l’autonomia sia una conquista storica da difendere ad ogni
costo, e chi teme addirittura che l'alternativa alla
specialità sarebbe o la secessione o una separazione
consensuale tra Sicilia e Italia .
Ci pare che questa
disputa sia tutto sommato abbastanza datata. L'autonomia
siciliana ha ormai da tempo perduto molti dei caratteri
della specialità, vuoi perché la Corte costituzionale ha
fornito di essa un'interpretazione molto riduttiva,
eliminando via via alcuni pennacchi dell'autonomia (come
l'Alta Corte), vuoi perché anche sul piano dei trasferimenti
finanziari la Sicilia è stata via via sempre più punita, e
in molti casi lo è stata a ragione, considerata, tra
l'altro, la scarsa capacità di spesa dimostrata con
riferimento alle risorse che le venivano trasferite. Questa
difesa ad oltranza della specialità delle origini pare, poi,
fuori luogo dopo la riforma del titolo V della Costituzione
del 2001. Questa riforma consente a tutte le regioni di
accedere a forme particolarmente estese di autonomia, solo
che abbiano le risorse per pagarsi le nuove competenze. Ciò
non cancella, ovviamente, la specialità di alcuni
ordinamenti regionali, perché essa rimane un principio
costituzionale inderogabile, ché connota la stessa struttura
dell'ordinamento costituzionale, su cui non si potrebbe
incidere a giudizio di autorevoli studiosi neppure
attraverso un procedimento di revisione costituzionale; ma,
tuttavia, rende “meno eccezionale” lo status costituzionale
delle regioni speciali.
Al di là comunque di
ciò che i padri fondatori dell’autonomia sono riusciti a
conquistare nell’immediato dopoguerra, non pare dubbio che i
loro eredi abbiano sperperato, nel corso degli anni, buona
parte di quel patrimonio. La specialità spesso è stata
interpretata come un regime di eccezione permanente grazie
al quale tutto poteva essere consentito alla Sicilia ed ai
suoi governanti. Lo Statuto, insomma, è stato vissuto come
un vero e proprio patto sottoscritto tra due entità sovrane,
che si voleva che rimanessero tali anche quando con
l’entrata in vigore della Costituzione si ponevano seri
problemi di coordinamento tra Statuto e Costituzione.
Sessant’anni di
autonomia speciale non ci consegnano una Sicilia che ha di
fronte a sé un rassicurante futuro. La specialità non ha
portato lo sviluppo che i siciliani si attendevano. E’ vero
che lo Stato non ha mantenuto le promesse fatte, ma è vero
anche che le classi dirigenti siciliani si sono battute
soprattutto per ottenere soccorsi e sussidi. Hanno
denunciato, anche con veemenza, le inadempienze statali, ma
si sono tutto sommato limitate ad una difesa statica
dell’autonomia.
La Sicilia è
diventata sempre più povera, stando ai dati relativi alle
condizioni di vita dei suoi abitanti. Essa continua a
confidare nella spesa pubblica, anche di fronte ad una
situazione di recessione economica, produce meno ed esporta
soprattutto capitale umano, considerato che i nostri ragazzi
diplomati e laureati sono costretti ad andare a vivere
altrove. I flussi migratori sono tornati quasi ai livelli
degli anni 50.
La grande sfida che
dovrà affrontare la nuova legislatura regionale, di fronte
ad una situazione finanziaria complessa e in larga misura
compromessa, sarà quello di mettere a punto in primo luogo
un piano di riforme senza spesa. C’è da chiedersi se classi
di governo che si sono formate negli anni dello scialo
sapranno gestire una siffatta emergenza, senza procedere
attraverso tagli lineari della spesa che offenderebbero il
principio di eguaglianza. Si tratta di sapere scegliere, di
operare con senso dell’ equità con riferimento agli
interessi incisi, e soprattutto di fare chiarezza nell’
inestricabile groviglio di complicità che coinvolgono mondo
politico e mondo degli affari. In questo senso, va
valorizzata una dimensione sociale dell’autonomia, forse
estranea alla cultura dello Statuto che non parla di diritti
e doveri.
Da sempre ci si è
compiaciuti delle deroghe che lo Statuto conteneva rispetto
agli Statuti delle altre regioni. Adesso ci si dovrebbe
impegnare a svilupparne le potenzialità, in un momento così
difficile per il paese. Si tratta di dare prova di grande
capacità progettuale e di fare acquisire alla politica
regionale quei caratteri di sobrietà che essa non ha mai
conosciuto. Politica e burocrazia, nel corso degli anni, con
il loro modus operandi hanno fatto assumere, infatti, al
sistema politico siciliano i tratti tipici di una democrazia
asiatica.
Al governo spartitorio
dei partiti di cui si parlava già sul finire degli anni 50 –
come non ricordare le dure requisitorie di Sturzo contro una
partitocrazia sempre più obesa ed invadente! Si è sostituita
una partitocrazia senza veri partiti, che coinvolge un
numero sempre più grande di soggetti decisionali (correnti,
fondazioni, tecnici che fanno solo affari) che rispondono a
singoli uomini politici.
Si è così venuta ad
affermare una concezione feudale del potere regionale, molto
vicina a quella che dell'autonomia avevano alcuni agrari
nel dopoguerra, tutti sicilianisti, i quali attraverso
l’autonomia volevano fermare il vento dal Nord. Costoro
concepivano i nuovi istituti regionali come presidi
destinati a difendere la cultura del feudo e i rapporti di
classe di cui essa era espressione. È triste constatare che
il nuovo feudo è stato costituito attraverso l'esercizio dei
diritti della democrazia, a tutto vantaggio di una ristretta
classe dirigente.
È vero che lo statuto
siciliano è vecchio, ma non perché è speciale, non perché dà
troppo potere alla Sicilia, ma perché è stato interpretato
come un trattato internazionale in base al quale la Sicilia
poteva decidere, senza essere vincolata da alcuna
responsabilità verso la comunità nazionale. L'atteggiamento
dello Stato nei confronti della Sicilia è stato pessimo, ma
quello delle classi dirigenti siciliani nei confronti
dell'autonomia non è stato migliore.
Difendere l'autonomia
oggi significa rifare lo statuto ponendo precisi limiti
all'invadenza della politica e della burocrazia per
promuovere una vera cultura dei diritti.
In questa campagna
elettorale tutti invocano la discontinuità; nelle alleanze,
nei programmi di governo, nella selezione del personale
politico. Una discontinuità facile da proclamare, ma
difficile da realizzare. Pare che qualcosa cominci a
muoversi. Considerato il lotto dei candidati Presidenti, si
può affermare che, prevalentemente, costoro sono migliori
delle truppe che dovrebbero sostenerli. Le liste dei
Presidenti presentano, non tutte, poi, a differenza delle
liste di partito, interessanti elementi di novità.
Finalmente è stato dato il giusto spazio a candidati che
vogliono rappresentare soprattutto le popolazioni, come
quelli del Movimento per il territorio. In questo senso la
lista Crocetta, per esempio, ha fatto una precisa scelta di
campo, valorizzando i candidati del territorio e rifiutando
gli uscenti. Ci si augura che lo stesso criterio si riesca a
seguire nel momento in cui si farà la giunta. E ci si
augura soprattutto che questi candidati, una volta eletti,
possano costituire una salutare anomalia rimanendo insieme,
in un unico gruppo, per meglio rappresentare i territori,
senza alcun collare partitico, e senza peraltro cadere nella
tentazione dell'antipolitica.
Si dovrebbe dare vita,
insomma, dentro la nuova ARS, che si annuncia ancora più
frammentata e rissosa di quella che l'ha preceduta, ad un
“polo dei volenterosi” che si impegnino a trovare punti di
convergenza sulle cose da fare e su come farle. Ciò potrebbe
rilegittimarne la funzione di rappresentanza. Potremmo così
avere un’Assemblea diversa da quella che si è vista
all’opera negli ultimi anni. Un’Assemblea che è stata
sovente teatro di fortissime contrapposizioni sul piano
della polemica politica, ma tutto sommato unanime nella
difesa delle pratiche del governo spartitorio.
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