Favorire il dialogo culturale in tutte le sue forme tra i paesi della sponda Nord  e quelli della sponda Sud del Mediterraneo.
 
 
 
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Le finalità della Fondazione

 
La Fondazione si propone di agevolare il formarsi di una cultura dello sviluppo nelle regioni più deboli del paese con particolare riferimento alla regione Sicilia. In questo senso occorre creare azioni sinergiche tra le regioni meridionali finalizzate a realizzare in Sicilia efficienti politiche della formazione, nonché a favorire tutte le forme di partecipazione orientate ad una migliore tutela dei diritti. In questo contesto è importante favorire il dialogo culturale in tutte le sue forme tra i paesi della sponda Nord  e quelli della sponda Sud del Mediterraneo, individuando nella Sicilia il territorio ideale per ubicare iniziative culturali che facciano di essa un vero e proprio hub della conoscenza.
 

Gli impegni
     
 

Nel perseguimento dello scopo istituzionale, la fondazione si impegna a:

a) svolgere ricerche e corsi di formazione che mirino a diffondere la cultura della partecipazione consapevole;
b) promuovere attività editoriali limitatamente allo scopo istituzionale;
c) divulgare le proprie iniziative attraverso i mass media e la rete internet;
d) organizzare in Sicilia convegni e incontri a livello nazionale ed internazionale per facilitare il dialogo tra i popoli del mediterraneo;
e) svolgere indagini finalizzate alla migliore conoscenza delle condizioni di vita dei popoli della regione mediterranea;
f) supportare attraverso la documentazione e la ricerca le attività delle istituzioni impegnate negli ambiti in oggetto;
g) diventare membro di altre organizzazioni e stipulare convenzioni con altre istituzioni

 
     
 
 
   
   


 

AUTONOMIA DA ABOLIRE? MEGLIO MODERNIZZARLA

Difendere la Sicilia dall’invadenza
di politica e burocrazia

Abolire l'autonomia speciale?

 

Salvo Andò

 

Nei giorni scorsi Francesco Merlo, in un articolo apparso su Repubblica, ha affermato, più o meno, che l’autonomia speciale anziché essere di aiuto alla Sicilia ne ha  favorito il malgoverno. Com’era prevedibile, si è subito aperta  una vivace discussione tra chi la pensa come Merlo, chi ritiene che l’autonomia sia  una conquista  storica da difendere ad ogni costo, e chi teme addirittura che l'alternativa alla specialità sarebbe  o  la  secessione o  una separazione consensuale tra Sicilia e Italia .

Ci pare che questa disputa sia tutto sommato abbastanza datata. L'autonomia siciliana ha ormai da tempo perduto molti dei caratteri della specialità, vuoi perché la Corte costituzionale ha fornito di essa un'interpretazione molto riduttiva, eliminando via via alcuni pennacchi dell'autonomia  (come l'Alta Corte), vuoi perché anche sul piano dei trasferimenti finanziari la Sicilia è stata via via sempre più punita, e in molti casi lo è stata a ragione, considerata, tra l'altro, la scarsa capacità di spesa dimostrata con riferimento alle risorse che le  venivano trasferite. Questa difesa ad oltranza della specialità delle origini pare, poi, fuori luogo dopo la riforma del titolo V della Costituzione del 2001. Questa riforma consente a tutte le regioni   di accedere a forme particolarmente estese di autonomia, solo che abbiano le risorse per pagarsi le nuove competenze. Ciò non cancella, ovviamente, la specialità di alcuni ordinamenti regionali, perché essa  rimane un principio costituzionale inderogabile, ché connota la stessa struttura dell'ordinamento costituzionale, su cui non si potrebbe incidere a giudizio di autorevoli studiosi neppure attraverso un procedimento di revisione costituzionale; ma, tuttavia, rende “meno eccezionale” lo status costituzionale delle regioni speciali.

Al di là comunque di ciò che i padri fondatori dell’autonomia sono  riusciti a conquistare nell’immediato dopoguerra, non pare dubbio che i loro eredi abbiano  sperperato, nel corso degli anni, buona parte di quel patrimonio. La specialità spesso è stata interpretata come un regime di eccezione permanente grazie al quale tutto poteva essere consentito alla Sicilia ed ai suoi governanti. Lo Statuto, insomma, è stato  vissuto come un vero e proprio patto sottoscritto tra due entità sovrane, che si voleva che rimanessero tali anche quando con l’entrata in vigore della Costituzione si ponevano seri problemi di coordinamento tra Statuto e Costituzione.

 Sessant’anni di autonomia speciale non ci consegnano una Sicilia che ha di fronte a sé un  rassicurante futuro. La specialità non ha portato lo sviluppo che i siciliani si attendevano. E’ vero che lo Stato  non ha mantenuto le promesse fatte, ma è vero anche che le classi dirigenti siciliani si sono   battute soprattutto per ottenere soccorsi e sussidi. Hanno denunciato, anche con veemenza, le  inadempienze statali, ma si sono tutto sommato limitate ad una difesa statica dell’autonomia.

La  Sicilia è  diventata sempre più povera, stando ai dati relativi alle condizioni di vita dei suoi abitanti. Essa continua a confidare nella  spesa pubblica, anche di fronte ad una situazione di recessione economica, produce meno ed esporta soprattutto capitale umano, considerato che i nostri ragazzi diplomati e laureati sono costretti ad andare a vivere altrove. I flussi migratori sono tornati quasi  ai livelli degli anni 50.

La grande sfida che dovrà affrontare la nuova legislatura regionale, di fronte ad una situazione finanziaria  complessa e in larga misura compromessa, sarà quello di mettere a punto in primo luogo un piano di  riforme senza spesa. C’è da chiedersi se classi di governo che si sono formate negli anni dello scialo sapranno gestire una siffatta emergenza, senza procedere attraverso tagli lineari della spesa che  offenderebbero il principio di eguaglianza. Si tratta di sapere scegliere, di operare con senso dell’ equità con riferimento agli interessi incisi, e  soprattutto di fare  chiarezza nell’ inestricabile groviglio di complicità che coinvolgono mondo  politico e mondo degli affari. In questo senso, va valorizzata  una dimensione sociale dell’autonomia, forse estranea alla cultura dello Statuto che non parla di diritti e doveri.

Da sempre ci si è compiaciuti delle deroghe che lo Statuto conteneva rispetto  agli Statuti delle altre regioni. Adesso ci si dovrebbe impegnare a svilupparne le potenzialità, in un momento così difficile per il paese. Si tratta di dare prova di grande capacità progettuale e di fare acquisire  alla politica regionale quei caratteri di  sobrietà che essa non ha mai conosciuto. Politica e burocrazia, nel corso degli anni, con il loro modus operandi hanno fatto assumere, infatti, al sistema politico siciliano i tratti tipici di una democrazia asiatica.

Al governo spartitorio dei partiti di cui si parlava già sul finire degli anni 50 – come non ricordare le dure requisitorie di Sturzo contro una partitocrazia sempre più obesa ed invadente! Si è sostituita una partitocrazia senza veri partiti, che coinvolge un numero sempre più grande di soggetti decisionali (correnti, fondazioni, tecnici che fanno solo affari)  che rispondono a singoli uomini politici.

 Si è così  venuta ad affermare una concezione feudale del potere regionale, molto vicina a quella che  dell'autonomia avevano alcuni agrari nel dopoguerra, tutti sicilianisti, i quali attraverso l’autonomia volevano fermare il vento dal Nord. Costoro concepivano  i nuovi istituti regionali come presidi destinati a difendere la cultura del feudo e i rapporti di classe di cui essa era  espressione. È triste constatare che il nuovo feudo è stato costituito attraverso l'esercizio dei diritti della democrazia, a tutto vantaggio di una ristretta classe dirigente.

È vero  che lo statuto siciliano è vecchio, ma non perché è speciale, non perché dà troppo potere alla Sicilia, ma perché è stato interpretato come un trattato internazionale in base al quale la Sicilia  poteva decidere, senza essere vincolata da alcuna responsabilità verso la comunità nazionale. L'atteggiamento dello Stato nei confronti della Sicilia è stato pessimo, ma quello delle classi dirigenti siciliani nei confronti dell'autonomia non è stato migliore.

Difendere  l'autonomia oggi significa rifare lo statuto ponendo precisi limiti all'invadenza della politica e della burocrazia per promuovere una vera cultura dei diritti.

In questa campagna elettorale tutti invocano la discontinuità; nelle alleanze, nei programmi di governo, nella selezione del personale politico. Una discontinuità facile da proclamare, ma difficile da realizzare. Pare che qualcosa cominci a muoversi. Considerato il lotto dei candidati Presidenti, si può affermare che, prevalentemente, costoro sono migliori delle truppe che dovrebbero sostenerli. Le liste dei Presidenti presentano, non tutte, poi, a differenza delle liste di partito, interessanti elementi  di novità. Finalmente è stato dato il giusto spazio a candidati che vogliono rappresentare soprattutto le popolazioni, come quelli del Movimento per il territorio. In questo senso la lista Crocetta, per esempio, ha fatto una  precisa scelta di campo, valorizzando i  candidati del territorio e rifiutando gli uscenti. Ci si augura che lo stesso criterio si riesca a seguire nel momento in cui si  farà la giunta. E ci si augura soprattutto che questi candidati, una volta eletti, possano costituire una salutare anomalia rimanendo insieme, in un unico gruppo, per meglio  rappresentare i territori, senza alcun collare partitico, e senza peraltro cadere nella tentazione dell'antipolitica.

Si dovrebbe dare vita, insomma, dentro la nuova ARS, che si annuncia ancora più frammentata e  rissosa di quella che l'ha preceduta, ad un “polo dei  volenterosi” che si impegnino a trovare punti di convergenza sulle cose da fare e su come farle. Ciò potrebbe rilegittimarne la funzione di rappresentanza. Potremmo così avere un’Assemblea diversa da quella che si è vista all’opera negli ultimi anni. Un’Assemblea che è stata sovente teatro di fortissime contrapposizioni sul piano della polemica politica, ma tutto sommato unanime nella difesa  delle  pratiche del governo spartitorio.

 

La Sicilia del 18/10/2012

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