I professori al governo avevano da subito
chiarito - ad un Paese per anni abbagliato dai miti di un
successo presentato come facile, a portata di mano, da una
irresponsabile politica dell'ottimismo fondata sul nulla -
che l'Italia era ormai ad un passo dal default, che
occorrevano sacrifici condivisi. E il Paese ha risposto
positivamente a queste sollecitazioni, accettando sacrifici
pesantissimi; basti pensare alla riforma delle pensioni, che
prevede tra l'altro l'innalzamento dell'età pensionabile, da
sempre un muro,questo, contro cui avevano cozzato tutti i
governi. Ma contestualmente l'esecutivo si era impegnato a
coniugare la politica del rigore per il contenimento della
spesa pubblica con misure volte a promuovere la crescita.
La spesa pubblica, però, non pare sotto controllo e di
giustizia distributiva se ne è avuta poca. Sono stati
colpiti gli interessi più facilmente aggredibili. Si sono
avuti soltanto tagli e tasse. Non si capisce ancora quale
sia il modello di sviluppo a cui il governo guarda, al di là
delle misure dell'emergenza. Da questo punto di vista, pare
emblematica l'ultima campagna promossa dal governo, quella
dello spending review. Rivedere i criteri di spesa può
significare tanto o può significare nulla. Ci si può
limitare a mettere a punto un piano di tagli generalizzati
o, invece, andare nella direzione di una coraggiosa
redistribuzione della spesa pubblica, che sia l'antefatto in
primo luogo di una seria riforma della pubblica
amministrazione. Si tratta di compiere precise scelte
politiche, non di fare quadrare comunque i conti
dell'azienda Stato, come se si trattasse di una qualunque
azienda privata dissestata (non è in questo senso un buon
segnale il fatto che si ricorra a specialisti di salvataggi
aziendali).
Allo stato, la gente ha capito che si vuole spendere di
meno, più che spendere meglio. Lo spending review non
comporta tagli comunque. Anzi. Nel Regno Unito si è
realizzata un'importante ridislocazione della spesa
pubblica, individuando pochi obbiettivi strategici per lo
sviluppo e indirizzando verso di essi le risorse acquisite
attraverso i tagli; si sta puntando in primo luogo sulle
politiche educative, cioè sulla formazione di un capitale
umano di qualità. In Italia, stando ai si dice, pare,
invece, che la scuola dovrebbe essere ulteriormente
penalizzata.
Il timore è che si possa procedere per tagli
orizzontali,senza distinguere tra spesa pubblica
improduttiva, e spesa destinata a garantire fondamentali
diritti di cittadinanza. Il paese oggi è allo stremo, anche
perché le politiche del rigore non hanno distribuito i
sacrifici secondo criteri di reale progressività, tenuto
conto dei redditi. Ogni giorno leggiamo di persone che
compiono gesti estremi perché non hanno di che vivere, o
perché la loro azienda è sopraffatta dalle tasse.
In proposito è giusto ricordare l'insegnamento di don Milani:
non c'è ingiustizia più grande che fare parti uguali tra
diseguali.
La giustizia sociale non può essere affidata alla legge del
mercato. E a poco vale la regolarità dei conti pubblici, se
poi "un eccesso di liberismo devasta il mondo del lavoro e
minaccia la coesione sociale", come ha dichiarato il
cardinale Bagnasco in occasione del 1° maggio.
Si è affermata negli anni passati l'idea che solo la finanza
possa giudicare la politica. Ci si è abituati a considerare
la politica un affare riservato ai ricchi o comunque
un'attività sempre più schierata dalla parte dei ricchi. E'
questa l'opinione che della politica hanno i giovani, nel
nord e nel sud del mondo, gli indignados delle rivolte
svoltesi in Europa, i ragazzi di "Occupy Wall Street", i
ragazzi della primavera araba. Essi protestano soprattutto
contro i banchieri.
Insomma, il mondo si sta risvegliando da un lungo sonno,
prodotto dal pensiero unico mercatista. Soprattutto i popoli
europei, paiono intenzionati a riappropriarsi di un
patrimonio culturale fatto di valori e conquiste sociali
ottenute dal mondo del lavoro, che hanno cambiato la storia
europea del secolo scorso.
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