I cinquantacinque
giorni del sequestro Moro sono stati, senza ombra di dubbio,
i giorni più drammatici della storia della Repubblica. Mai
lo Stato è apparso così debole, così indeciso sul da farsi
di fornte ad una grave emergenza. Forze dell'ordine e
apparati di sicurezza impegnati nelle indagini furono
mobilitati in modo massiccio senza raggiungere alcun
risultato pratico. Le lettere che Moro inviava dalla
“prigione del popolo”, che contenevano, in forma criptica
ovviamente, informazioni utili per potere scoprire il luogo
di detenzione furono oggetto di interpretazioni superficiali
e fuorvianti. Il governo non apparve mai in grado di
intraprendere un percorso che potesse portare alla
liberazione dell'ostaggio. Quotidianamente, decideva di non
decidere. I partiti, a loro volta, si divisero in due
schieramenti, quello della trattativa e quello della
fermezza, polemizzando tra di loro, scambiandosi accuse di
irresponsabilità e di cinismo.
In un clima avvelenato
da paralizzanti impuntature ideologiche, non era pensabile
che si potessero aprire spazi utili per un dialogo anche a
distanza con le BR. Ma non solo. Moro fu rappresentato di
fronte all'opinione pubblica, anche da alcuni settori del
suo stesso partito, come un uomo disposto a tutto, anche a
pretendere la capitolazione dello Stato, pur di salvare la
propria vita e garantire il futuro della sua famiglia.
In quelle terribili
giornate fu, oggettivamente, distrutta sia la statura morale
dell'uomo che la figura dello statista, che per trent'anni
era stato alla guida del governo, del partito e del gruppo
parlamentare della DC.
Si disse che il Moro
che scriveva dal carcere non fosse il vero Moro, che le cose
che diceva erano scritte sotto dettatura dei terroristi;
alcuni addirittura presentarono Moro come un prigioniero che
interloquiva con i sequestratori non per fare esplodere le
contraddizioni che c'erano all'interno dell'organizzazione
terroristica – perché, così come è venuto fuori anche in
occasione dei processi, dentro le Br c'era uno scontro tra
una linea della fermezza ed una posizione trattativista -,
ma come un uomo quasi disposto ad assecondare il processo
che si faceva nei confronti della Dc. Moro nelle sue lettere
chiedeva una “iniziativa umanitaria” a suo favore da parte
dello Stato, perchè convinto che dovere prioritario dello
Stato fosse quello di salvare una vita umana.
Va rilevato che questa
concezione sacra della vita umana scaturiva dalla sua
profonda fede cattolica, dalla lealtà ai valori
costituzionali, nonché dai principi che stavano alla base
del sistema penale che aveva studiato fornendo contributi
magistrali sul piano dottrinale.
Val la pena di
ricordare che c'è una continuità di pensiero in questo senso
tra il Moro studioso, il Moro politico e il Moro prigioniero
delle Br.
Egli ricorda ai suoi
interlocutori, soprattutto a quelli della sua parte
politica, qual’ è la natura dello Stato e quali doveri
ineludibili discendano da essa. Il pensiero filosofico di
Moro è ben sintetizzato nelle dispense, poi pubblicate in
volume, destinate agli studenti del corso di filosofia del
diritto che nell'anno accademico 42 - 43 egli teneva presso
l'università di Bari. La sua idea che lo Stato non è solo
forza, ma è forza coniugata a giustizia, fu efficacemente
sviluppata anche attraverso gli interventi svolti
all'assemblea costituente.
Il dovere di vivere di
cui parla nelle lettere è lo stesso dovere di vivere di cui
parlava nelle sue lezioni baresi, discutendo del valore
della persona umana, ed esponendo quindi la sua concezione
umanistica dello Stato. E’ muovendo da questa visione dello
Stato e della libertà che egli, in una lettera della fine di
aprile, indirizzata alla famiglia, afferma: “ma da cosa si
può dedurre che lo Stato va in rovina se, una volta tanto,
un innocente sopravvive e, in compenso, un'altra persona va,
invece che in prigione, in esilio? Il discorso è tutto qui”.
Si tratta di affermazioni che non gli venivano suggerite
dalle Br, ma dalla sua formazione intellettuale e dalla sua
fede cristiana. È la risposta a quanto si chiedeva Andreotti
in televisione: “quale sarebbe la reazione dei carabinieri,
dei poliziotti, degli agenti di custodia se il governo, alle
loro spalle, violando la legge, premiasse chi ha fatto
scempio della legge stessa? E che cosa direbbero le vedove
gli orfani, le madri di coloro che sono caduti
nell'adempimento del proprio dovere?”. Era facile replicare
al Presidente del Consiglio che con il sacrificio di Moro
certamente non si ridava la vita a coloro che erano stati
uccisi dai brigatisti, e che non poteva essere motivo di
conforto per le famiglie delle vittime sapere che Moro aveva
fatto la stessa fine. (...)
A Moro sono state
attribuite volontà, disegni che paiono assai lontani dal suo
modo di vedere il futuro della democrazia italiana. Si è
detto che l'Italia, con Moro vivo, avrebbe conosciuto un
lungo periodo di tregua politica con DC e PCI associati al
governo.
Ciò non rispondeva
affatto ai disegni di Moro, come è stato autorevolmente
dimostrato da tanti studiosi, e soprattutto da Craveri.
Moro non era attratto
dai comunisti sul piano ideologico certamente, né
condivideva le scelte compiute dal partito comunista, sino
agli anni 70, con riferimento alla politica europea, alle
politiche sociali (avevano avversato le riforme del centro
sinistra guidato da Moro), all'affermazione, anche da parte
di Berlinguer,di una presunta superiorità del modello
comunista rispetto a quello socialdemocratico, al metodo
seguito per far opposizione criminalizzando l'avversario. Il
processo alla Dc, in questo senso, era un'idea fissa nella
cultura di quel partito (cultura questa che terrà campo fino
al processo Andreotti). Moro registra con soddisfazione i
cambiamenti intervenuti nel partito comunista con
riferimento alla riconosciuta utilità dell'alleanza
atlantica e alla presa di distanza dal regime sovietico da
parte di Berlinguer, che tuttavia riconosceva ancora negli
anni 70 la vitalità del modello sociale comunista. Moro è
convinto che una tregua col partito comunista serva alla
democrazia cristiana per riorganizzare il proprio
insediamento sociale, considerato che, a partire dagli anni
70, esso pareva essere ormai in crisi, ma soprattutto per
fare fronte a forme esasperate di conflittualità sociale.
Riteneva di dover vincere le resistenze della Dc per
facilitare, attraverso le riforme, una integrazione
effettiva delle masse nel processo di crescita democratica.
(...)
La sfida con la
sinistra andava ingaggiata affrontando la questione sociale
in termini diversi da quelli attraverso i quali ci si era
rivolti al paese nei primi anni della ricostruzione.
Rifiutare il governo con i comunisti non significava
ignorare ciò che rappresentavano le masse che quel partito
organizzava politicamente.
Egli esortava il suo
partito a non minimizzare il pericolo di un fascismo che si
potesse esprimere in altre forme e quando, come ricorda
Scoppola, la destra Dc pareva favorevole ad una apertura
verso il movimento dell'“uomo qualunque”, Moro si oppose
fermamente, non per ragioni di tattica politica, ma per
ragioni che attenevano alla sua concezione dell'impegno dei
cattolici in politica,convinto com’era che alla base di esso
vi dovesse essere una forte ansia di moralità.” L'esperienza
politica -scrive Moro sulla rivista Studium nel 1945-… si
nutre del pensiero libero….. Della suprema e nobile fatica
di essere se stessi….. L'uomo qualunque non è appunto se
stesso, è altri da sé, disposto a tutto pur di conservare
quella sua quiete che è una terribile perdita, la perdita
dell'umanità…”.
È ingiusto ritenere che
Moro fosse vocato alla mediazione, patteggiando con tutti su
tutto, indifferente a quei principi che danno moralità alla
politica. Non ha mai pensato di patteggiare con le BR
rivelando segreti che potessero nuocere al suo partito e
allo Stato. Non ha pensato mai all'accordo con il partito
comunista come ad un compromesso storico destinato ad
annullare le differenze che rendevano DC e PCI partiti tra
loro alternativi, una volta realizzato un regime di
democrazia compiuta. (…)
Certamente parlò a
lungo nel carcere del popolo alle BR senza concedere, però,
ai suoi sequestratori alcun vantaggio. Egli cercò attraverso
il dialogo di piegare ai suoi fini le BR, ma non vi riuscì
perché lasciato solo da chi aveva il dovere di aiutarlo.
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