Con il profilarsi di una possibile
conclusione anticipata della legislatura, puntuale si
ripresenta la discussione sulla riforma del sistema
elettorale. I sistemi elettorali sono fra le principali
regole entro cui la politica va giocata, e non ne esistono
di buoni o cattivi. Esistono piuttosto sistemi elettorali
adatti e sistemi elettorali inadatti alla realtà sociale e
ai fini della collettività. Tutte le regole del gioco
politico sono strumenti molto studiati e molto contesi,
perché in grado -entro certi limiti - di predeterminare
l’esito elettorale, di decretare la vittoria di uno e la
sconfitta di un altro o, quantomeno, di assegnare un buon
vantaggio a questo o a quello.
Le decisioni su di esse dovrebbero
essere assunte, se non da tutti, almeno dalla più larga
maggioranza possibile dei giocatori. Sfortunatamente, nei
convulsi mesi che si annunciano, non è dato sperare che un
improvviso rinsavimento conduca ad una riforma condivisa che
restituisca il diritto minimale a scegliere almeno i propri
eletti. Se da un canto è certo auspicabile che non siedano
troppi partiti nell’assemblea legislativa, d’altro canto una
realtà politica frastagliata come quella italiana non può
permettersi di comprimere le sue tante identità serrandole
in un paio di contenitori appena: la pressione troppo alta
finisce regolarmente per farne tracimare alcune, ciò che
puntualmente accade quando, dall’accorpamento
pre-elettorale, si passa alla scomposizione post-elettorale
(identitaria o interessata) in gruppi parlamentari.
Le leggi elettorali succedutesi a
partire dal 1993 hanno alimentato, in nome della
governabilità, quell’insana personalizzazione della politica
che è stata autorevolmente rilevata sulle colonne di questo
giornale. È perfino ovvio che ogni politica abbisogni di una
leadership, ma la cautela delle costituzioni liberali ha
sempre consigliato di bilanciarla attraverso una distinzione
tra poteri. È infatti dal corretto equilibrio tra poteri
distinti che nasce la buona politica, non dall’accentramento
semplificatorio che chi governa è tentato di pretendere.
Simmetrica tentazione spesso abita anche l’elettorato: farla
finita con le lentezze della politica e lasciar libero il
manovratore. In Italia, sia detto per inciso, le elezioni
servono a scegliere i parlamentari, e non i governanti. La
scelta dei secondi dipende dalla scelta dei primi (e non
l’inverso) perché il Governo deve avere la fiducia del
Parlamento (e non l’inverso): così funzionano le democrazie
parlamentari.
Tanto più i contendenti alla guida del
Governo saranno in grado di scegliere i parlamentari, tanto
meno la deriva personalistica potrà arrestarsi. Sotto tale
profilo, l’attuale legge elettorale è certamente peggiore
delle precedenti, perché permette al futuro Presidente del
Consiglio di progettare un Parlamento fedele e inoffensivo.
Maggioranza ed opposizioni, nei prossimi mesi, si
rinfacceranno, con ogni probabilità, la responsabilità di
non giungere ad una riforma condivisa. Così facendo, però,
si assolveranno reciprocamente, celandosi dietro l’alibi
della colpa altrui e continuando frattanto a lucrare quella
rendita che una legge del genere innegabilmente offre a
tutti i gruppi dirigenti.
Ove tuttavia esistessero davvero
partiti provvisti della buona volontà necessaria a
contrastare i personalismi, potrebbero egualmente, ed
unilateralmente, metter mano ad una qualche riforma. A norma
di Costituzione potrebbero darsi, infatti, uno statuto
autenticamente democratico, che non giaccia, logoro, sulla
carta di qualche regolamento facilmente ignorabile, ma viva
nella realtà quotidiana di chi, non ancora disincantato,
nutra passione per la politica. Potrebbero, tali partiti,
rendersi scalabili dalle forze vive della società, pur senza
cedere alla trita antipolitica della società civile.
Potrebbero consentire un confronto paritario al loro
interno, abolendo le facili soluzioni dell’ipse dixit.
Potrebbero, a lume di democrazia, evitare di agire come
lobbies più o meno manifeste, e ispirarsi alla pluralità dei
modelli organizzativi dei Paesi democraticamente avanzati.
Non si tratta di tornare a modelli
organizzativi identici a quelli di vent’anni addietro,
poiché troppo è cambiato nella società mentre la politica si
attardava in regolamenti di conti autoreferenziali: sono
mutate le esigenze reali di vita e i linguaggi, le culture
di riferimento e i modelli di aggregazione. Non si può, ad
esempio, tornare alla vecchia articolazione territoriale
delle sezioni, benché di rappresentanza territoriale vi sia
enorme bisogno, ma si può egualmente inaugurare un confronto
sulla gestione delle risorse locali attraverso mezzi più
consoni: le tecnologie informatiche offrono gigantesche ed
inesplorate possibilità a riguardo. Nemmeno è possibile
ignorare la trasformazione dei mezzi di comunicazione:
occorre però guardare alle possibilità di pluralismo che
tali progressi offrono invece di rivendicarvi uno spazio
privilegiato.
A maggior ragione, in un’ottica
federalista prossima ventura, tale proposito di
democratizzazione dei partiti può risultare conveniente: se
dalla periferia si rivendica indipendenza di giudizio
rispetto ad apparati e personalismi centralistici, liberare
le forze locali dal fardello dell’obbedienza gioverebbe alla
credibilità e al dinamismo, salva l’opportunità di
coordinare le diverse realtà territoriali in sede di
elezioni nazionali. Esigenza, questa, che risulterà tanto
più soddisfatta quanto meno si soffochi la democrazia
interna attraverso minacce di sanzioni. Questo possono fare
i partiti di buona volontà se sorretti dal coraggio
necessario a vincere la miope ristrettezza di orizzonti
troppo personali. Se tale buona volontà mancasse, o mancasse
il coraggio, sarebbe ovviamente tutta un’altra storia:
basterebbe dirlo, e non si faticherebbe a non prenderli sul
serio.
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