Favorire il dialogo culturale in tutte le sue forme tra i paesi della sponda Nord  e quelli della sponda Sud del Mediterraneo.
 
 
 
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Le finalità della Fondazione

 
La Fondazione si propone di agevolare il formarsi di una cultura dello sviluppo nelle regioni più deboli del paese con particolare riferimento alla regione Sicilia. In questo senso occorre creare azioni sinergiche tra le regioni meridionali finalizzate a realizzare in Sicilia efficienti politiche della formazione, nonché a favorire tutte le forme di partecipazione orientate ad una migliore tutela dei diritti. In questo contesto è importante favorire il dialogo culturale in tutte le sue forme tra i paesi della sponda Nord  e quelli della sponda Sud del Mediterraneo, individuando nella Sicilia il territorio ideale per ubicare iniziative culturali che facciano di essa un vero e proprio hub della conoscenza.
 

Gli impegni
     
 

Nel perseguimento dello scopo istituzionale, la fondazione si impegna a:

a) svolgere ricerche e corsi di formazione che mirino a diffondere la cultura della partecipazione consapevole;
b) promuovere attività editoriali limitatamente allo scopo istituzionale;
c) divulgare le proprie iniziative attraverso i mass media e la rete internet;
d) organizzare in Sicilia convegni e incontri a livello nazionale ed internazionale per facilitare il dialogo tra i popoli del mediterraneo;
e) svolgere indagini finalizzate alla migliore conoscenza delle condizioni di vita dei popoli della regione mediterranea;
f) supportare attraverso la documentazione e la ricerca le attività delle istituzioni impegnate negli ambiti in oggetto;
g) diventare membro di altre organizzazioni e stipulare convenzioni con altre istituzioni

 
     
 
 
   
   


 
SECONDA REPUBBLICA

Pdl, è già in crisi
il partito personale

 
Salvo Andò
 

La rottura verificatasi nel Pdl in questi giorni pare ancora più grave di quella avvenuta nel centro destra alla fine del ’ 94,dopo che fu notificato al premier Berlusconi un avviso di garanzia nel corso di un importante summit internazionale al quale partecipava.

Stavolta non si tratta di un colpo di mano, di una trama trasversale ordita nei palazzi della politica, ma della probabile fine di equilibri politici che si erano andati via via strutturando nel corso degli anni, a partire dalla fine della Prima Repubblica e dei tradizionali partiti costituzionali.

La rottura nel Pdl non nasce da dissensi occasionali, ma da incomprensioni che riguardano il funzionamento del partito,e soprattutto il ruolo del leader all’interno di esso.

Problemi analoghi in passato aveva sollevato Casini, giungendo alla conclusione che la convivenza con Berlusconi nella coalizione si rivelava impossibile.

Non importa sapere se le contestazioni fatte da Fini siano dettate da ragioni di principio o dalla volontà di difendere il proprio ruolo di cofondatore del partito. Una cosa pare certa. E’ stata messa in discussione una certa idea del bipartitismo di oggi e del bipolarismo di ieri, attraverso il rifiuto di un modello di partito e di un metodo di governo. È stata messa in discussione una concezione primitiva del bipolarismo secondo cui chi vince le elezioni è legittimato a prendersi tutto, a blindare la propria maggioranza per renderla autosufficiente, anche quando si tratta di approvare grandi riforme di rilevanza costituzionale.

La crisi apertasi nel Pdl, che per la natura delle questioni che ha messo in luce oggettivamente riguarda anche il Pd, non può non configurarsi come una crisi del sistema politico.

Se così stanno le cose, a poco vale rimpiazzare i dissidenti schieratisi con Fini reclutando nuovi alleati, o andare ad elezioni anticipate che Berlusconi potrebbe peraltro rivincere. Tutto ciò non servirebbe a fermare un processo di delegittimazione del bipolarismo, per come lo abbiamo sperimentato in questi anni.

La privatizzazione della politica, la confusione tra affari pubblici ed affari privati, il principio maggioritario inteso come fonte di legittimazione di un potere senza limiti costituiranno nei prossimi mesi l’oggetto di una discussione pubblica destinata a non rimanere confinata all’ interno del Pdl.

Berlusconi ha annunciato che si occuperà nelle prossime settimane del partito e poi delle riforme istituzionali nell’intento di mettere ordine nel sistema politico e di meglio presidiare il suo "governo del fare". Ma le due cose paiono inscindibili.

La "grande riforma" infatti sarà tale se inciderà non solo sul sistema di poteri ma anche su quello dei diritti politici e dei doveri pubblici. In questo contesto va ripensata la forma dei partiti che non devono essere meri comitati elettorali ma organizzatori di comunità politiche che si ritrovino intorno a valori condivisi e che promuovano una discussione pubblica sulle cose da fare.

Il bipolarismo per cui Berlusconi si batte è riuscito a reggere solo come duello elettorale. Ma il bipolarismo non può ridursi a questo. Esso presuppone una forte progettualità politica condivisa. E la legge elettorale, anche la più costrittiva, non può fare il miracolo di cancellare identità politiche ben radicate nella storia politica del paese.

Del resto, la transizione infinita verso la Seconda Repubblica ha insegnato che quando le alleanze o i grandi partiti che concorrono al governo sono figli dello stato di necessità e non di convincimenti maturati nel tempo inevitabilmentesi producono ribaltoni e divisioni laceranti. Di ciò hanno fatto le spese sia Prodi che Berlusconi.

Oggi più che mai pare evidente che le difficoltà del centrodestra sono difficoltà politiche che evidenziano i limiti dell’attuale legge elettorale.

Le leggi elettorali, peraltro, come ricordava Panebianco qualche giorno addietro sul Corriere della Sera, difficilmente resistono ai cambiamenti troppo radicali degli equilibri politici. Se Fini dovesse continuare per la sua strada saremmo di fronte ad uno stravolgimento degli attuali assetti politici che potrebbe produrre una resurrezione del Centro e fare saltare il sistema bipolare.

All’Italia forse di addice un sistema elettorale che non espianti le identità imponendo fusioni a freddo tra partiti diversi o pezzi di partito. Si addice un sistema che" liberalizzi" i partiti consentendo una vera vita democratica al loro interno a cominciare dalla scelta dei candidati.

La crisi del partito privatizzato della Seconda Repubblica non si avverte peraltro solo a livello delle strutture centrali. C’è una diffusa domanda di maggiore libertà di azione nel territorio. Si chiedono dirigenti locali che non siano dei meri esecutori degli ordini del leader nazionale.

Ciò che sta accadendo in Sicilia con la divisione nel Pdl tra lealisti e sudisti conferma questa stato di malessere.

Il partito finanziato con i soldi del contribuente deve garantire i diritti politici e non conculcarli; deve favorire la partecipazione consentendo la discussione pubblica sulle questioni che la gente avverte come fondamentali per la propria vita.

Di ciò abbiamo tanto più bisogno se la riforma federalista va avanti. Non è possibile realizzare il federalismo istituzionale con partiti sempre più romanocentrici, nei quali comanda uno solo.

Occorre attuare l’art. 49 della Costituzione che individua nel partito lo strumento fondamentale della partecipazione. La riforma delle istituzioni deve cominciare proprio da qui.

Si tratta di conciliare la stabilità politica con schieramenti plurali al proprio interno e che si riconoscono in un leader; di garantire leadership forti nella misura in cui danno coesione alla coalizione; di disporre di leader che non confondano l’idea di popolo con quella di folla acclamante, e che non rivendichino un potere solitario,senza freni e contrappesi, identificando nel pluralismo istituzionale e politico un elemento di debolezza per l’azione di governo.

Un sistema elettorale a doppio turno potrebbe salvaguardare le diverse identità presenti in un’alleanza, e consentire un autorevole vertice dell’esecutivo in grado di coabitare anche con maggioranze politiche diverse da quella che esprime il presidente della Repubblica eletto direttamente dal popolo.

La coabitazione in Francia è stata possibile perché i presidenti hanno saputo prendere atto del limite costituito dall’esistenza di una maggioranza parlamentare diversa da quella presidenziale. Si è sempre saputo trovare un punto di equilibrio. Durante i 59 anni di vita della V Repubblica si sono avuti 9 anni di coabitazione e non si è rischiato nessun collasso istituzionale.

In Italia purtroppo la coabitazione tra presidente della Camera e presidente del Consiglio - coabitazione che data la diversità dei ruoli dovrebbe risultare del tutto agevole - durante gli ultimi governi di centrodestra si è rivelata problematica.

Ma le nostre difficoltà non vanno imputate solo alla legge elettorale, ma ad una carenza di cultura delle regole.

E i partiti servono anche per promuovere questa cultura attraverso una forte dialettica interna. Tutto ciò può fare, però, solo un partito vero, che sappia rispondere alle aspettative dei suoi militanti e del suoi elettori. Non lo può fare invece un "partito personale".

 

La Sicilia del 02/08/2010
 

 
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