La rottura verificatasi nel Pdl in questi
giorni pare ancora più grave di quella avvenuta nel centro
destra alla fine del ’ 94,dopo che fu notificato al premier
Berlusconi un avviso di garanzia nel corso di un importante
summit internazionale al quale partecipava.
Stavolta non si tratta di un colpo di
mano, di una trama trasversale ordita nei palazzi della
politica, ma della probabile fine di equilibri politici che
si erano andati via via strutturando nel corso degli anni, a
partire dalla fine della Prima Repubblica e dei tradizionali
partiti costituzionali.
La rottura nel Pdl non nasce da dissensi
occasionali, ma da incomprensioni che riguardano il
funzionamento del partito,e soprattutto il ruolo del leader
all’interno di esso.
Problemi analoghi in passato aveva
sollevato Casini, giungendo alla conclusione che la
convivenza con Berlusconi nella coalizione si rivelava
impossibile.
Non importa sapere se le contestazioni
fatte da Fini siano dettate da ragioni di principio o dalla
volontà di difendere il proprio ruolo di cofondatore del
partito. Una cosa pare certa. E’ stata messa in discussione
una certa idea del bipartitismo di oggi e del bipolarismo di
ieri, attraverso il rifiuto di un modello di partito e di un
metodo di governo. È stata messa in discussione una
concezione primitiva del bipolarismo secondo cui chi vince
le elezioni è legittimato a prendersi tutto, a blindare la
propria maggioranza per renderla autosufficiente, anche
quando si tratta di approvare grandi riforme di rilevanza
costituzionale.
La crisi apertasi nel Pdl, che per la
natura delle questioni che ha messo in luce oggettivamente
riguarda anche il Pd, non può non configurarsi come una
crisi del sistema politico.
Se così stanno le cose, a poco vale
rimpiazzare i dissidenti schieratisi con Fini reclutando
nuovi alleati, o andare ad elezioni anticipate che
Berlusconi potrebbe peraltro rivincere. Tutto ciò non
servirebbe a fermare un processo di delegittimazione del
bipolarismo, per come lo abbiamo sperimentato in questi
anni.
La privatizzazione della politica, la
confusione tra affari pubblici ed affari privati, il
principio maggioritario inteso come fonte di legittimazione
di un potere senza limiti costituiranno nei prossimi mesi
l’oggetto di una discussione pubblica destinata a non
rimanere confinata all’ interno del Pdl.
Berlusconi ha annunciato che si occuperà
nelle prossime settimane del partito e poi delle riforme
istituzionali nell’intento di mettere ordine nel sistema
politico e di meglio presidiare il suo "governo del fare".
Ma le due cose paiono inscindibili.
La "grande riforma" infatti sarà tale se
inciderà non solo sul sistema di poteri ma anche su quello
dei diritti politici e dei doveri pubblici. In questo
contesto va ripensata la forma dei partiti che non devono
essere meri comitati elettorali ma organizzatori di comunità
politiche che si ritrovino intorno a valori condivisi e che
promuovano una discussione pubblica sulle cose da fare.
Il bipolarismo per cui Berlusconi si
batte è riuscito a reggere solo come duello elettorale. Ma
il bipolarismo non può ridursi a questo. Esso presuppone una
forte progettualità politica condivisa. E la legge
elettorale, anche la più costrittiva, non può fare il
miracolo di cancellare identità politiche ben radicate nella
storia politica del paese.
Del resto, la transizione infinita verso
la Seconda Repubblica ha insegnato che quando le alleanze o
i grandi partiti che concorrono al governo sono figli dello
stato di necessità e non di convincimenti maturati nel tempo
inevitabilmentesi producono ribaltoni e divisioni laceranti.
Di ciò hanno fatto le spese sia Prodi che Berlusconi.
Oggi più che mai pare evidente che le
difficoltà del centrodestra sono difficoltà politiche che
evidenziano i limiti dell’attuale legge elettorale.
Le leggi elettorali, peraltro, come
ricordava Panebianco qualche giorno addietro sul Corriere
della Sera, difficilmente resistono ai cambiamenti troppo
radicali degli equilibri politici. Se Fini dovesse
continuare per la sua strada saremmo di fronte ad uno
stravolgimento degli attuali assetti politici che potrebbe
produrre una resurrezione del Centro e fare saltare il
sistema bipolare.
All’Italia forse di addice un sistema
elettorale che non espianti le identità imponendo fusioni a
freddo tra partiti diversi o pezzi di partito. Si addice un
sistema che" liberalizzi" i partiti consentendo una vera
vita democratica al loro interno a cominciare dalla scelta
dei candidati.
La crisi del partito privatizzato della
Seconda Repubblica non si avverte peraltro solo a livello
delle strutture centrali. C’è una diffusa domanda di
maggiore libertà di azione nel territorio. Si chiedono
dirigenti locali che non siano dei meri esecutori degli
ordini del leader nazionale.
Ciò che sta accadendo in Sicilia con la
divisione nel Pdl tra lealisti e sudisti conferma questa
stato di malessere.
Il partito finanziato con i soldi del
contribuente deve garantire i diritti politici e non
conculcarli; deve favorire la partecipazione consentendo la
discussione pubblica sulle questioni che la gente avverte
come fondamentali per la propria vita.
Di ciò abbiamo tanto più bisogno se la
riforma federalista va avanti. Non è possibile realizzare il
federalismo istituzionale con partiti sempre più
romanocentrici, nei quali comanda uno solo.
Occorre attuare l’art. 49 della
Costituzione che individua nel partito lo strumento
fondamentale della partecipazione. La riforma delle
istituzioni deve cominciare proprio da qui.
Si tratta di conciliare la stabilità
politica con schieramenti plurali al proprio interno e che
si riconoscono in un leader; di garantire leadership forti
nella misura in cui danno coesione alla coalizione; di
disporre di leader che non confondano l’idea di popolo con
quella di folla acclamante, e che non rivendichino un potere
solitario,senza freni e contrappesi, identificando nel
pluralismo istituzionale e politico un elemento di debolezza
per l’azione di governo.
Un sistema elettorale a doppio turno
potrebbe salvaguardare le diverse identità presenti in
un’alleanza, e consentire un autorevole vertice
dell’esecutivo in grado di coabitare anche con maggioranze
politiche diverse da quella che esprime il presidente della
Repubblica eletto direttamente dal popolo.
La coabitazione in Francia è stata
possibile perché i presidenti hanno saputo prendere atto del
limite costituito dall’esistenza di una maggioranza
parlamentare diversa da quella presidenziale. Si è sempre
saputo trovare un punto di equilibrio. Durante i 59 anni di
vita della V Repubblica si sono avuti 9 anni di coabitazione
e non si è rischiato nessun collasso istituzionale.
In Italia purtroppo la coabitazione tra
presidente della Camera e presidente del Consiglio -
coabitazione che data la diversità dei ruoli dovrebbe
risultare del tutto agevole - durante gli ultimi governi di
centrodestra si è rivelata problematica.
Ma le nostre difficoltà non vanno
imputate solo alla legge elettorale, ma ad una carenza di
cultura delle regole.
E i partiti servono anche per promuovere
questa cultura attraverso una forte dialettica interna.
Tutto ciò può fare, però, solo un partito vero, che sappia
rispondere alle aspettative dei suoi militanti e del suoi
elettori. Non lo può fare invece un "partito personale".
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